giovedì 28 marzo 2024
Riferendosi alla recente riunione del Consiglio europeo, Giorgia Meloni ha detto di non avervi «visto un clima di guerra», e ciò, aggiungiamo, anche grazie alla perizia con la quale la premier italiana, responsabile del G7 per il 2024, sta trattando quella che, tuttavia, è una guerra sul suolo europeo che l’Europa non ha voluto e che vorrebbe fermare, certo però non arrendendosi all’aggressore e non abbandonando l’Ucraina. In questo clima ribollente si stanno avvicinando le elezioni europee, che Meloni affronta con un duplice senso di responsabilità: da un lato la responsabilità verso le proprie idee e la propria area politica; dall’altro quella nei confronti del governo, della nazione e dell’Europa stessa. Si tratta di coniugare gli ideali con la realtà, e per farlo occorre usare, come criterio dell’agire, la coerenza, che è un arduo esercizio mentale prima ancora che pragmatico, spirituale prima che politico, ed esige integrità e realismo.
E la realtà europea attuale è così riassumibile: gli elettori sono profondamente demotivati e molto preoccupati; Bruxelles è situata al centro del continente ma è sideralmente distante dai cittadini europei; troppi e troppo a lungo reiterati gli errori commessi dalle istituzioni; i popoli sono trascurati e le nazioni soffocate; i valori tradizionali vengono stravolti e sostituiti da una vacua precettistica che si autodefinisce politicamente corretta; e infine la debolezza politica europea ha permesso agli eredi dell’Unione Sovietica di avviare una guerra di conquista lanciando una sfida all’intero Occidente, con le inevitabili conseguenze negative sull’economia degli Stati e sulla psicologia delle persone.
Cosa vogliono gli europei? Certo, benessere e tranquillità, ma anche dare continuità alla loro bimillenaria civiltà. Non vogliono panem et circenses, bensì pace e lavoro, ma non sono disposti ad averli rinunciando all’anima. Vogliono una realtà quanto più possibile fiorente, ma vorrebbero anche sentirsi parte di un disegno storico più alto, e avrebbero bisogno di trovare nelle istituzioni un sostegno che li facesse sentire protagonisti di un tale slancio spirituale.
Poiché queste esigenze non sono fittizie, né irrealizzabili, la politica dovrebbe dare risposte che non siano la consunta retorica pseudoeuropeistica capace di dire soltanto «più Europa» o la meschina proliferazione delle normative approntate da burocrati privi di qualsiasi coscienza politica, e nemmeno l’inquietante ammiccamento che gli antioccidentalisti rivolgono alla Russia, a quell’aggressiva potenza neozarista e, parimenti, neo-sovietica che tenta di destabilizzare con ogni mezzo l’Europa e i suoi popoli nell’intento di espandere la propria sfera d’influenza a spese degli europei.
In questo senso e in sintonia con la propria traiettoria, Giorgia Meloni riesce a conservare un giudizio critico verso le degenerazioni burocratistiche e accentratrici dell’Unione europea, e nel contempo a tenere uno sguardo lucido sulle esigenze di governabilità delle istituzioni. L’Ue va, giustamente, criticata nella sua deriva tecno-burocratica e nella sua ostilità all’autonomia delle nazioni, ma va anche, inevitabilmente, governata. E le due opzioni possono armonizzarsi. Da presidente del Consiglio, Meloni sta compiendo un esercizio politico (ma anche storico-culturale) di alto bilanciamento istituzionale, con una visione che va al di là della contingenza senza però smarrire quel principio di realtà indispensabile alla prassi politica. Detto in sintesi: l’Unione europea è un fatto storico inaggirabile e, nella sua essenza politica, imprescindibile, ma ha bisogno di una profonda revisione, di modifiche non meramente ingegneristiche bensì di pensiero, cambiamenti di ordine prospettico che implicano anche una diversa concezione della storia, senza trascurare mai la dura scorza della realtà sociale, politica ed economica.
Da due legislature l’europarlamento è guidato da una maggioranza anomala (Ppe, Pse, Liberali), che purtroppo potrebbe riproporsi anche per la legislatura prossima e che mostra un quadro politico bloccato. Larghe intese o, come dicono i tedeschi, grosse Koalition: coalizione, però non coesione; molti interessi divergenti, troppi compromessi. Posto che agire su questo livello euroistituzionale sia difficile per chiunque, dato il consolidamento di un nucleo tecnoburocratico che si muove come un rullo compressore, si scorgono tuttavia alcuni rilevanti tentativi. Giorgia Meloni è, giustamente, convinta che rifiutare qualsiasi collaborazione con il Partito Popolare Europeo sia non solo autolesionistico ma pure sbagliato, perché nel Ppe vi sono ancora persone e movimenti di chiara caratura conservatrice, che guardano molto più a destra (ovvero alla nuova destra liberalconservatrice) che a sinistra.
Quella che possiamo chiamare l’ipotesi-Meloni punta a risolvere questa anomalia immaginando due opzioni: una maggioranza Ppe-Conservatori (e se necessario anche i liberali), se il voto di giugno la consentisse; oppure, ipotesi più probabile, il voto di Fratelli d’Italia per eleggere il presidente della Commissione nella prospettiva di un rapporto sempre più stretto fra i conservatori e il Ppe. In questa seconda modalità, la scelta di Giorgia di non allearsi mai con i socialisti, né in Italia né in Europa, verrebbe rispettata, e al tempo stesso i voti del gruppo Ecr verrebbero tolti dal limbo in cui finora la maggioranza di centrosinistra li ha confinati, con il risultato che il peso dei conservatori avrebbe anche una voce operativa nel governo dell’Ue, aprendo finestre di dialogo con i popolari ma senza compromessi con i socialisti e, ovviamente, escludendo movimenti neonazisti o filorussi. Si tratta di una soluzione graduale e variabile, legata a dati di fatto contingenti e alle loro mutazioni, ma che permetterebbe ai conservatori di intervenire con autorevolezza su temi e aspetti ritenuti di particolare importanza, e che non impedirebbe alla premier italiana di ribadire i cardini della sua visione della società, restando coerente con le proprie scelte geopolitiche.
Fra i principali tasti su cui insiste la sua azione, alcuni spiccano per qualità politico-culturale: l’idea di sovranità nazionale nelle sempre più strette interrelazioni fra gli Stati europei; il rafforzamento dell’Alleanza Atlantica in quelle che Ernst Jünger definirebbe le nuove «tempeste d’acciaio»; il rilancio delle radici ebraico-cristiane in un’epoca in cui il laicismo anticristiano e il razzismo antisemita (insieme al crescente incombere dell’islamismo) sono una minaccia per la sopravvivenza dell’anima europea.
In un intervento inviato a un recente convegno sull’Europa delle patrie e delle nazioni svoltosi a Trieste, Giorgia Meloni ha sottolineato l’importanza fondamentale dell’amor di patria e della coscienza nazionale, e ha ricordato come «Giovanni Paolo II, che dell’Europa unita è stato il padre spirituale per eccellenza, anche in virtù del suo contributo al crollo dell’impero sovietico, reclamò “il diritto della nazione”, che è “la grande educatrice degli uomini”». Sulla scia di Giovanni Paolo II, il sovranismo intelligente di Giorgia Meloni consiste precisamente nel patriottismo, che a sua volta rappresenta l’antidoto al nazionalismo e la chiave per il rafforzamento dell’Unione europea: l’amore per la propria patria è la premessa per un sentimento di appartenenza europea. Che le patrie vengano prima dell’Europa è un dato indiscutibile, che non può essere rovesciato da nessuna esigenza, pur utile, di integrazione.
Inoltre, cito ancora da quell’intervento, il sostegno all’Ucraina è un dovere morale che riguarda tutto il mondo occidentale. Non a caso, scrive Meloni, «ho voluto tenere l’incontro del G7 da Kyiv proprio per testimoniare, una volta ancora, la solidarietà dell’Europa e del mondo occidentale al popolo ucraino». Oggi infatti, «l’Europa è colpita da una guerra scatenata dall’espansionismo della Russia, e tutte le sue nazioni sono decisamente schierate a difesa della libertà e della dignità del popolo ucraino. Questo conflitto, che ha risvolti pesanti nell’immediato, ci unisce sul piano etico, perché fronteggiare una guerra d’aggressione sul suolo europeo è necessario politicamente, è giusto moralmente e serve a evitare future, drammatiche dipendenze di natura economica. [...] A questa minaccia dobbiamo rispondere in tutte le forme utili a farvi fronte concretamente, ma anche tentando di far ragionare chi l’ha lanciata, tenendo aperta ogni possibilità di dialogo. Perciò, accanto all’azione della Nato, che sosteniamo con forza e convinzione, vogliamo mettere in campo anche tutti gli strumenti della diplomazia».
Infine, l’essenza dell’anima europea. Perché riprendere il vessillo di una battaglia perduta vent’anni fa? Perché, sostiene Meloni, la politica non è solo pragmatica, ma anche simbolica, e i simboli dell’anima di un popolo, in questo caso di un intero continente, rappresentano la coscienza stessa dell’insieme di nazioni che è l’Unione europea. Così Meloni: «le patrie come entità nazionali sono in stretta relazione con le radici giudaico-cristiane dell’Europa, perché se la nazione esprime l’identità di un popolo, l’identità europea è stata formata, in gran parte, dalla spiritualità cristiana, connessa anche con quella del popolo che Giovanni Paolo II ha definito “i nostri fratelli maggiori”. Il dibattito dei primi anni Duemila sulla menzione delle radici spirituali nel Trattato per la Costituzione europea si è concluso con la loro esclusione. Ma il senso e la ragione di quella questione non si sono esauriti. Le pagine della storia si chiudono, ma si possono anche riaprire, tanto più se riguardano temi assolutamente fondamentali per l’esistenza umana. E poiché la politica è l’arte non solo del possibile ma anche, nella mia accezione, del rendere possibile, voglio riaprire il dibattito sulla menzione delle radici ebraico-cristiane nei Trattati europei, e rilanciare la presenza vivente di queste radici nella vita politica e istituzionale dell’Unione europea».
Per recuperare questo grande tema identitario, c’è oggi una motivazione forte e una circostanza favorevole, sia perché si tratta di un’esigenza sentita, in modo più o meno intenso, dalla stragrande maggioranza della popolazione europea, sia perché la composizione del prossimo Parlamento europeo sarà, con ogni probabilità, ancor più spostata verso quei partiti e gruppi che hanno nei valori religiosi della nostra tradizione il loro asse di riferimento. Nel 2004 il tentativo fallì, ma ora la situazione è migliore: i partiti di centrodestra hanno oggi una più nitida percezione della necessità di rinvigorire l’anima dell’Europa ricorrendo in primo luogo a quella radice religiosa che, nonostante le avversità (l’oltranzismo laicista di certa politica e la crisi interna della Chiesa), continua a vivere nell’anima dei cittadini europei.
Inoltre, proprio perché si parla di radici «ebraico-cristiane», il crescente antisemitismo che oggi preoccupa anche il laicissimo governo francese potrebbe essere stigmatizzato formalmente al massimo livello esecutivo, se appunto le radici religiose venissero rivitalizzate sul piano istituzionale. Se l’Unione europea assume, sul piano simbolico e politico, le radici religiose della propria identità, non diventa meno laica e non infrange la separazione tra Stato e Chiesa. Al contrario, diventa più forte sia sul piano spirituale sia su quello politico, perché ha il coraggio di valorizzare tutta la propria storia, non solo dunque quella laica moderna, e di esibire la propria identità integrale.
Questo auspicato colpo d’ala dell’Europa avrebbe anche un potente significato nel confronto con la Russia, con quell’avversario che dai confini dell’Europa continua a presentarsi, indebitamente ma spudoratamente, come il nuovo sostenitore della spiritualità cristiana, tanto da sedurre le confuse menti di quei cristiani tradizionalisti filorussi che auspicano la fine dell’Occidente e l’avvento dell’eurasianismo. Dichiarare le proprie radici spirituali depotenzierebbe la propaganda russa, che spaccia valori cristiani con mezzi tipici della disinformacija da Kgb e con finalità espansionistiche neosovietiche, svelando la falsità storica e il cinismo politico di tale propaganda. E sul piano interno, significherebbe opporre alla cancel culture la Leitkultur, intesa non in senso suprematistico ma come la cultura che ha guidato la civiltà occidentale e che è nata dall’anima dell’Europa.
di Renato Cristin