martedì 6 febbraio 2024
Si dice spesso, e ancor più spesso si sente dire, quasi come fosse una rassicurante ritualità collettiva, che la giustizia è in crisi. Del resto, se in crisi perenne è l’economia, in crisi atavica è la famiglia, in crisi costante è perfino la Chiesa, non si vede perché la giustizia possa e debba rimanere esclusa da eventuali patologie.
La locuzione è certo quanto mai ambigua, tuttavia, potendosi prestare ad una doppia interpretazione, indicando, cioè, la crisi del sistema giudiziario per un verso, o, per altro verso, la crisi della giustizia in quanto tale, intesa come virtù.
Senza dubbio, infatti, il sistema giudiziario versa in grave crisi a causa dei numerosi processi in arretrato, a causa di carceri sovraffollate, a causa di una popolazione carceraria di cui ben un terzo è ancora in attesa di giudizio, a causa del costante sottorganico del malpagato personale (magistrati, cancellieri, polizia penitenziaria, ecc.) destinato a peggiorare a causa della comprensibile fuga dalle facoltà di giurisprudenza in cui si parla tanto, si capisce poco e si pensa ancor meno, a causa della sovrapproduzione normativa che mina la certezza e la comprensibilità dell’ordinamento giuridico, e a causa di tanti ulteriori ben noti fattori.
Nonostante tale fosco scenario, tuttavia, la vera crisi non consiste nella somma di tutti i predetti fattori, ma in qualcosa di diverso e di ben più grave, cioè nella crisi della giustizia in quanto tale. Sono sempre di più i giuristi che, non a caso, hanno dismesso ogni collegamento – anche di sola vaga speranza – con la tensione verso la giustizia.
Al giurista odierno, infatti, interessa soltanto la velocità, l’economicità, l’efficienza del processo o degli strumenti deflattivi del processo (riti alternativi, mediazioni, conciliazioni, transazioni, ecc.), ignorando spesso dolosamente, ma per lo più colposamente la intrinseca giustizia delle decisioni adottate.
Il giurista di oggi, insomma, è colui che ha perduto la visione della giustizia come meta, poiché, in sostanza, dietro la fiducia nell’infallibilità dei calcoli, ha smarrito la visione della ragione.
La ragione calcolante, infatti, non può sostituire la ragione riflessiva; la ragione analitica non può rimpiazzare la ragione sintetica; la ragione statistica non può prendere il posto della ragione giuridica.
La crisi della giustizia, in sostanza, è la crisi della ragione, come si evince da almeno tre elementi principali e convergenti.
In primo luogo: sono sempre più ricorrenti, nelle norme e nelle sentenze, gli elementi non giuridici che diventano il centro di gravità del provvedimento: l’interesse sociale, il sentimento storico, le risultanze delle scienze positive, l’amore ecc. Viene così espunto ogni riferimento – anche soltanto indiretto – alla ragione giuridica che dovrebbe fondare la decisione legislativa o giudiziaria assunta, rimettendosi alla pura occasionalità accidentale degli eventi.
In secondo luogo: la rinuncia a ricercare la ragione giuridica, dovendosi appellare ai fattori contingenti come appunto, per esempio, l’interesse sociale o l’amore, comporta per un verso che il giurista ha abdicato alla propria funzione – riducendosi a quella di mero certificatore formale degli accadimenti – e, per altro verso, comporta la consegna del diritto nella sua interezza alla mutevolezza delle correnti della storia negando così inevitabilmente la sua intrinseca universalità. Negare l’universalità del diritto, in fondo, è soltanto un modo implicito per negare la ragione giuridica (e viceversa).
In terzo luogo: osservare il fenomeno giuridico e giudiziario soltanto in termini di efficienza del sistema – come all’interno di un ciclo produttivo di una catena di montaggio di una fabbrica – significa perdere di vista, come infatti inesorabilmente avviene, l’orizzonte di senso dell’intero sistema, cioè la persona.
Negare la ragione giuridica, infatti, si risolve presto o tardi in misure – leggi, regolamenti, direttive, sentenze – che si ripercuotono in modo lesivo sulla persona e sui suoi diritti naturali e, reciprocamente, emanare provvedimenti che ledono la persona significa negare radicalmente e profondamente la ragione giuridica.
La crisi della ragione giuridica, però, non è soltanto la crisi della ragione che si estrinseca nell’ambito giuridico, ma qualcosa di ancor più profondo, essendo cioè la crisi della ragione nell’ambito più umano che possa esserci, poiché il diritto – afferendo ai poteri, alle facoltà, alle libertà che ciascun individuo può o non può per natura esercitare – è la dimensione della realtà più aderente e adesiva alla natura dell’essere umano.
La crisi della giustizia, allora, come crisi della ragione, è crisi della ragion giuridica non tanto e non solo quale crisi dell’umano diritto, ma anche e soprattutto quale crisi del diritto umano, poiché un diritto che non si cura dell’uomo o ne viola direttamente o indirettamente lo statuto onto-assiologico, tramuta in mera violenza legale, sicuramente legittima, ma non altrettanto lecita, poiché – con gli insegnamenti degli antichi Maestri – una legge (o una sentenza) non giusta non è diritto, ma perversione del diritto.
E tanto più profonda è la crisi attuale della giustizia quanto più la classe dei giuristi ignora più o meno consapevolmente tali dinamiche, rifugiandosi dietro la formale e confortante sicurezza della mistica delle “numerologie giudiziarie” (numero di processi prescritti, numero di processi decisi, numero di sentenze appellate, numero di processi annullati con o senza rinvio, ecc.).
La crisi della giustizia, allora, in conclusione seppur parziale, è la crisi della ragione del giurista, tanto più acuta quanto più egli ne è ignaro, e tanto più grottesca quanto più egli si appella ad un razionalismo oramai privo di ogni razionalità.
di Aldo Rocco Vitale