giovedì 11 gennaio 2024
Acca Larenzia (o Larentia) per alcuni è un’antichissima divinità romana, madre dei Lari. Per altri è stata la “lupa”, la meretrice e – per la razionalizzazione dell’evento mitico – nutrice dei gemelli Romolo e Remo rinvenuti dal marito, il pastore Faustolo, sulle rive del Tevere. Per gli italiani è il nome di una stradina del Tuscolano a Roma, balzata agli onori della cronaca il pomeriggio del 7 gennaio 1978 a causa di un gravissimo fatto di sangue accaduto all’uscita della sezione locale del Movimento sociale italiano. Cinque giovanissimi militanti del Fronte della gioventù vengono raggiunti da colpi d’arma da fuoco, esplosi da terroristi rossi. Franco Bigonzetti viene ucciso. Vincenzo Segneri, sebbene ferito a un braccio riesce a rientrare nella sede del partito dove si barrica insieme a Maurizio Lupini e Giuseppe D’Audino, usciti illesi dall’agguato. Il quinto, Francesco Ciavatta, sanguinante, tenta la fuga ma viene “giustiziato” dagli assalitori con un proiettile alla schiena sulla scalinata posta a lato dell’ingresso della sezione. Nelle ore successive all’attentato la rabbia dei missini si riversa nello scontro con le forze dell’ordine. Nei tafferugli parte un colpo di pistola che uccide un altro militante del Fronte della gioventù: Stefano Recchioni.
Da quella tragica giornata di 46 anni orsono per la destra di ascendenza missina e radicale vedersi in via Acca Larenzia ogni 7 gennaio rappresenta un dovere della memoria. A maggior ragione per la circostanza, non secondaria, che non sono mai stati identificati gli autori della strage e neanche chi tra i membri delle forze dell’ordine – forse un carabiniere – ha colpito a morte il giovane Recchioni. All’epoca, l’eccidio fu rivendicato dai Nuclei armati per il contropotere territoriale (Nact), organizzazione della galassia del terrorismo rosso. In seguito, le indagini lambirono gli ambienti di Lotta continua. Resta, tuttavia, il fatto inaccettabile che nessuno sia stato condannato per quelle morti.
Sarà forse per questa ragione che le istituzioni, negli anni trascorsi da quel giorno buio, hanno tollerato che la commemorazione si concludesse con il commovente rito del “presente!”, in ricordo dei camerati uccisi. Rito che, negli anni Ottanta-Novanta, ha visto la partecipazione dei militanti del Movimento sociale. Partecipazione poi diradatasi, fino a scomparire, con la trasformazione del Movimento sociale italiano in Alleanza nazionale. Il nuovo corso della destra post-fascista ha tagliato di netto con il proprio passato, a cominciare da quel simbolismo che per decenni ha richiamato nell’immaginario collettivo l’armamentario retorico-propagandistico delle camicie nere. Ciononostante, le commemorazioni con tanto di braccio teso e di saluto romano sono continuate senza che ciò creasse particolare scandalo.
Accade lo stesso a Milano quando i “camerati” ricordano le morti del giovane Sergio Ramelli, militante del Fronte della Gioventù, barbaramente trucidato il 13 marzo 1975 da un gruppo di militanti di Avanguardia operaia e di Enrico Pedenovi, consigliere provinciale del Movimento sociale italiano, assassinato da terroristi di Prima linea il 29 aprile 1976. É un pericolo per la democrazia tutto ciò? Bisogna capire il contesto: in una società libera una comunità di persone, le cui idee possono essere rifiutate e combattute, ricorda i suoi morti e nel farlo non compie alcun atto eversivo. Anche l’autorità giudiziaria ne è consapevole al punto che, a fronte delle assoluzioni in diversi gradi di giudizio nei molti procedimenti svolti a carico di militanti di destra accusati di aver esibito il saluto romano e di aver risposto alla cerimonia del “camerata-presente!”, oggi le Sezioni unite della Cassazione sono chiamate a esprimersi sui “contrasti ermeneutici” sorti tra le diverse corti di merito in ordine all’inquadramento dei comportamenti contestati agli imputati quali fattispecie di reato ai sensi dell’articolo 5 della legge 30 giugno 1952 numero 645 (legge Scelba) e dell’articolo 2 del decreto legge del 26 aprile 1993, convertito in legge il 25 giugno 1993, numero 205 (legge Mancino) in materia di apologia del fascismo, di ricostituzione del disciolto Partito nazionale fascista e di “manifestazioni esteriori volte a caratterizzare l’azione di organizzazioni che propugnano nell’attualità idee discriminatorie e razziste”. In parole semplici, neanche i giudici sanno dire se fare il saluto romano o rispondere presente alla chiamata costituisca reato.
Finora la sinistra si è ben guardata dal rendersi ridicola sollevando il problema dell’allarme fascista per qualche centinaio di ragazzi impegnati a commemorare i propri caduti durante gli Anni di piombo. Oggi, Elly Schlein, Giuseppe Conte e, a ruota, tutte le meste comparse del campo largo della sinistra gridano allo scandalo e chiedono a Giorgia Meloni di prendersela con i convenuti in via Acca Larenzia, a ennesima riprova della sua sincera conversione al credo antifascista. Quale indecente ipocrisia! Demonizzano le braccia tese, cercando maliziosamente di associarle al centrodestra, e non spendono una parola di pietà per le vittime e di denegata giustizia perché a 46 anni dall’eccidio i responsabili non sono stati individuati e perseguiti. I “compagni” preferiscono reprimere piuttosto che tollerare. D’altro canto, la negazione della libertà è iscritta nel Dna degli eredi del comunismo. Eppure, dovrebbero saperlo che in uno Stato democratico, fondato su un impianto costituzionale di ispirazione liberale, la libertà di parola e quella di espressione vengono prima di ogni altro diritto. Fin quando nessuno di quegli uomini e di quelle donne, che l’altro giorno hanno risposto “presente” alla commemorazione dei caduti di via Acca Larenzia, crei un concreto pericolo per la tenuta democratica delle istituzioni repubblicane, non vi può essere repressione delle pulsioni sentimentali né incarceramento del pensiero, per quanto tale pensiero possa essere ritenuto negativo e sbagliato. È questione di principio che reca valore aggiunto alla forma democratica. D’altronde, la libertà ha sempre un prezzo alto, sia per conquistarla sia per garantirla. Questa cosa la sinistra non riesce a comprenderla. Come non capisce tante altre cose rispetto alle libertà individuali. Sarà per questo che si rende ridicola ogniqualvolta, per contrastare gli avversari politici, provi a inscenare il teatrino della difesa della Costituzione minacciata da chissà quali forze eversive. Compagni del campo largo progressista, siete patetici. E non fate neanche ridere.
di Cristofaro Sola