Stato-Mafia: il giudice non deve fare lo storico

martedì 14 novembre 2023


La Corte di Cassazione, per motivare le assoluzioni di tutti gli imputati nel processo conosciuto come quello sulla Trattativa fra lo Stato e la mafia, ha avuto bisogno soltanto di novantacinque pagine, contro le tremila della sentenza di appello e le cinquemila di quella di primo grado, entrambe invece condannatorie.

Che forse i giudici della Suprema Corte siano dotati in misura iperbolica di una capacità di sintesi che invece è preclusa a quelli di merito, attardatisi lungo le impervie vie degli argomenti giuridici?

Per nulla. Il fatto è invece che mentre la Cassazione si è soffermata, come deve essere, esclusivamente sulle questioni giuridiche derivanti dalle imputazioni formalizzate nel processo, i giudici di merito, le imputazioni – che costituiscono l’architrave del processo penale – sembrano averle perdute per la strada, forse per la fatica di scrivere migliaia e migliaia di pagine dove l’ansia della ricostruzione fattuale degli avvenimenti ha prevalso sulla prospettiva strettamente giuridica con cui gli stessi vanno selezionati e valutati.

Scrive infatti la Cassazione che i giudici di Palermo “conferendo di fatto preminenza ad un approccio storiografico nell’interpretazione del dato probatorio, hanno finito per smarrire la centralità della imputazione nella trama del processo penale, profondendo sforzi imponenti nell’accertare fatti spesso poco o per nulla rilevanti nell’economia del giudizio” e che ciò ha comportato “un’eccessiva dilatazione delle motivazioni delle sentenze... una mole tale da offuscare le ragioni della decisione e rendere le linee argomentative di difficile identificazione e interpretazione”.

In altre parole, qui la Cassazione ci dice che i giudici palermitani di primo e di secondo grado, più che i giuristi, hanno finito con il fare gli storici; osservazione, questa, che ripropone una questione che tradizionalmente ha appassionato i teorici del diritto: il giudice è chiamato anche a svolgere una funzione storiografica?

Da un certo punto di vista sì, dal momento che, come ha precisato Giuseppe Capograssi, il processo di diritto consiste nel “procedere attraverso segni che significano, ma non sono la cosa significata”, il che presenta affinità innegabili con l’attività propria dello storico.

Ma, da un altro punto di vista, la risposta è di sicuro negativa, dal momento che il giudice non è chiamato, al pari dello storico di professione, ad investigare la trama complessa degli avvenimenti, densi sempre di risvolti politici, sociali, economici, antropologici, per quanto oggi la tentazione in tal senso sia quasi irresistibile (basti pensare ai processi nei confronti di Giulio Andreotti, nei quali molti videro il desiderio di ricostruire la storia di una intera epoca dei rapporti politici italiani).

Egli è chiamato invece a leggere e giudicare la realtà unicamente dalla prospettiva giuridica, non avendo titolo per indagare sui fatti considerati in quanto tali: il giudice non deve ricostruire a tutti i costi la realtà come si svolse se non nei limiti in cui sia necessario per verificare o falsificare l’ipotesi accusatoria.

Il giudice non è tenuto a dirci sempre e comunque “come andarono le cose”, ma solo nei rigorosi limiti in cui sia utile per assolvere o condannare l’imputato.

In proposito, non occorre scomodare le dense pagine dedicate da Marc Bloch o da Federico Chabod al mestiere dello storico e alla metodologia da questi adottata, bastando ripensare alle considerazioni di Carlo Ginzburg sul tema a partire dal processo nei confronti di Adriano Sofri.

E bastano per dire che, pur se affini, si tratta di attività del tutto diverse e non convergenti, per il semplice motivo che mentre lo storico può e deve ricercare la realtà dei fatti senza limiti di alcun genere, il giudice deve preselezionare soltanto i fatti che siano giuridicamente rilevanti scartando gli altri e deve farlo osservando i limiti imposti dalla procedura a tutela dell’imputato: preclusioni, nullità, inutilizzabilità ecc.

E ciò semplicemente perché il giudice – a differenza dello storico che maneggia l’intera vicenda umana in qualunque modo declinata – ha a che fare con i diritti degli esseri umani, che gli pongono interdetti, limiti, impossibilità: non è lecito torturare l’imputato, questi ha diritto di mentire o di tacere, non sempre e comunque tutte le prove possono entrare nel processo...

In altri termini, il giudice deve sempre indossare, per dir così e utilizzando il titolo di una celebre rubrica per anni tenuta da Arturo Carlo Jemolo, “gli occhiali del giurista”, dei quali ovviamente lo storico, per far bene il suo lavoro, deve fare a meno, se non quando fosse necessario inforcarli.

Ecco perché le ottomila pagine delle due sentenze di Palermo stupiscono la Cassazione: perché, per dire tutto, non dicono nulla; e perché quel tutto che si sforzano storiograficamente di dire, lo dicono male, come un vero storico non si azzarderebbe a fare.

A pensarci bene, infatti, il giudice ha da fare una cosa soltanto ben percepibile dal nome che lo designa: egli deve “dire il diritto” (ius dicit). Il resto, tutto il resto è chiacchiera.

(*) Editoriale tratto dal quotidiano La Sicilia


di Vincenzo Vitale