Israele: di chi era il missile?

venerdì 20 ottobre 2023


Si sta sempre scrivendo, ovviamente, della visita di Joe Biden in Israele. Qualcuno (vedi La Stampa) ha opportunamente specificato che sarebbe perdonabile se il presidente Usa, appena atterrato in Israele, si fosse chiesto se quello su cui metteva piede “era un trampolino della Terza guerra mondiale”. Addirittura! Il punto vero, l’aspetto più significativo, se non storico, è stato l’atterraggio del primo presidente statunitense nella terra più santa e al tempo stesso più tormentata del mondo. Perché di questo si tratta, quando parliamo di Israele. Ma spesso e volentieri i commenti a tal proposito sfuggono al discorso. Svicolano: volano alto, altissimo. L’argomento, compresa innanzitutto la visita presidenziale per di più in piena guerra, disturba per così dire il decorso di uno scontro che, appunto, pare a molti il prosieguo di una malattia endemica, incurabile. Joe Biden ha fatto capire che gli Usa sono al fianco di Israele – prima, ora e sempre – mandando un messaggio agli arabi che più chiaro di così non poteva essere. E non lo poteva e non lo può proprio perché la tensione della situazione, peraltro avviata proprio da Hamas, non è una delle solite schermaglie fra arabi ed ebrei. Non è la solita guerricciola che si sistema con qualche compromesso.

Si tratta, al contrario, dell’esistenza di Israele come nazione, come Stato sovrano, come realtà viva in un contesto nel quale tutti vorrebbero morta tale realtà. La ragione primaria della trasvolata di Biden in Terra Santa segnala, al contempo, un silenzio dell’Europa che soltanto ora, non prima ma dopo quella visita, sembra aver trovato qualche parola decisa e senza circonlocuzioni contro un’aggressione a freddo che, in altri più o meno lontani tempi, avrebbe significato una parola: guerra! Se osserviamo un po’ più da vicino il contesto, va ricordato che la visita di Joe Biden era stata anticipata dall’arrivo non di una ma di due portaerei, tanto da far capire al mondo nemico di Tel Aviv che l’America non solo c’è, ma che due potenti navi da guerra (e non da crociera) a pochi chilometri dalla spiaggia sono un messaggio molto esplicito. Si è trattato, insomma, di un incontro a tutti gli effetti speciale, perché Israele, come prima ma più di prima, si trova sola e isolata.

La stessa vicenda della strage a Gaza è diventata un’occasione (una strage di innocenti!) per rinfacciarsi colpe e responsabilità quando è storicamente scontato che la strategia di Gerusalemme non ha mai seguito le piste obbligate di una strage, pur nel percorso di battaglie e guerre senza esclusione di colpi. Per questa e altre ragioni si rende più visibile e tragica, per contrasto, l’opposta “strategiapalestinese che non distingue fra civili e militari, donde le “stragi di innocenti” destinate, purtroppo, a ripetersi anche nel generale silenzio dei popoli che fanno da corona a Israele. E non solo loro. In un simile contesto la coraggiosa (lo diciamo con una aggettivazione che potrebbe apparire retorica) presenza di Biden va dunque ben oltre il saluto a un popolo amico, a uno scambio di opinioni, a un vertice politico. È invece la conferma di una amicizia che non ha paura di sfide. E che non ha paura di affrontarle e di vincerle. E Hamas è nata esclusivamente per sfidare i fratelli arabi – e al resto del mondo occidentale – sulla lotta mortale a Israele e ai suoi protettori. In primis, gli Usa. Ed è in un quadro del genere che l’interrogativo sulla paternità del missile lascia il tempo che trova.


di Paolo Pillitteri