venerdì 13 ottobre 2023
“Un’opera è letteraria quando autore ed opera sono inscindibili, scientifica quando può averla scritta chiunque”: questo un significativo aforisma di Nicolás Dávila, il raffinatissimo pensatore colombiano riscoperto anche in Italia.
Ecco in che senso, Gadamer affermava che ogni interpretare è un “interpretar-si”: perché nelle scienze dello spirito, la persona dell’interprete è costitutiva del risultato dell’interpretazione, non rimanendo mai ad esso estranea; e ciò a differenza di quanto accade nelle scienze della natura, ove la riproducibilità dell’esperimento da parte di chiunque ne rappresenta il criterio fondativo.
Questa la prospettiva più acconcia per meglio mettere a fuoco uno degli argomenti abituali in questi giorni in relazione alla polemica relativa alla presenza della giudice Iolanda Apostolico alla dimostrazione contro il Governo di qualche anno fa.
Molti infatti affermano che ci si dovrebbe fermare ad analizzare la correttezza del provvedimento dalla stessa emanato, ma evitando accuratamente di porre attenzione sulla persona che ne sia autrice, la quale dovrebbe rimanere del tutto indifferente.
Per comprendere che le cose non sono così semplici, basta considerare la fondatezza delle osservazioni che precedono, sufficienti a far intendere come ogni provvedimento giurisdizionale sia espressione personalissima del giudice che lo abbia adottato.
Così come l’interpretazione pianistica di un valzer di Chopin resa da Cortot non è uguale a quella dovuta a Perlemuter o il cesto di frutta di Monet non è sovrapponibile a quello di Caravaggio, allo stesso modo una sentenza – il cui etimo, non a caso, viene da “sentire” che vale “soffrire” – non è un esito tecnico, ma il risultato di una interpretazione schiettamente personale: anche e soprattutto per il giudice, il suo interpretare i fatti, le prove, gli atti, le norme, non è che un interpretar-si, un mettere in gioco se stesso con tutto il corredo della propria sensibilità e “sofferenza” umana e giuridica.
Ecco perché i giudici – che dovrebbero nutrire per sé una più alta stima – non sono intercambiabili e perché mai potranno essere sostituiti da una macchina, sia pure intelligentissima, non disponendo questa di alcuna sensibilità.
Ecco, ancora, perché, allo scopo di consentire ad una tale sensibilità di dispiegarsi, bisognerebbe preoccuparsi fin dalla formazione universitaria di far di loro prima che esperti di norme, dei veri “esperti d’umanità”, dal momento che è dalla vita e non dalle norme che prende le mosse il fenomeno giuridico (per poi, dopo un lungo giro, alla vita ritornare).
Ed ecco infine perché appare un esercizio inutilmente pedante quello di censire i giudici che negli ultimi anni si siano candidati con questo o con quel partito, quasi a stigmatizzarne l’appartenenza politica spregiudicatamente esibita in danno della propria imparzialità.
Rispetto a questi pochi che almeno hanno giocato a carte scoperte, altri, purtroppo, nulla o poco esibendo, non riescono ad evitare che nel cuore delle proprie interpretazioni, in perfetta buona fede, si insinui il germe maligno della faziosità politica che fatalmente inquina ogni possibile soluzione secondo giustizia: e la cosa è visibile, visibilissima.
Sicché, al contrario di quanto oggi si ripete, ciò che occorre assicurarsi davvero è chi, pur nutrendo opinioni politiche come chiunque, sappia salvaguardare la genuinità del ragionamento secondo giustizia e la sua imparziale sovranità.
Null’altro che, come ammoniva Lanfranco Mossini (già presidente del Tribunale di Parma), il “buon giudice”.
(*) Tratto dal quotidiano La Sicilia
di Vincenzo Vitale