venerdì 13 ottobre 2023
Immenso Lehner. Riguardo all’atto proditorio compiuto da Hamas contro il popolo d’Israele, lui sì che ha capito tutto. Nei suoi “Sassolini”, pubblicati ieri l’altro sul nostro giornale, Giancarlo Lehner ha centrato con precisione millimetrica il cuore del problema.
C’è un grande burattinaio che muove i fili di tutto ciò che sta accadendo intorno a noi e sta al Cremlino: Vladimir Putin. Nelle fantasie dei governanti occidentali avrebbe dovuto essere il piccolo, impaurito, pazzo, perdente Vladimir, che le armi e i dollari avrebbero spazzato via come foglia preda del vento d’autunno. L’Ucraina? La sua tomba. Invece? Il topo si è trasformato in gatto. Già, proprio così. Se fino a ieri ci siamo illusi di affondare lo zar e il suo impero, adesso dobbiamo preoccuparci di salvare noi stessi. Dopo l’invasione dell’Ucraina si sono riaccesi, in giro per l’Africa, alcuni focolai di guerra prima soltanto sopiti. Dal Sudan al Mali, al Burkina Faso, al Niger e poi il Gabon. Ovunque si combatta, c’è lo zampino di Mosca. E la Libia, dove sono stanziate le forze della milizia privata russa Wagner? Vogliamo forse dimenticare ciò che sta accadendo di fronte alle coste della Sicilia? La Siria è un teatro di guerra, dove l’ultima parola resta al dominus moscovita. Se l’Unione europea e il Fondo monetario internazionale non si sbrigheranno a dare ossigeno al morente regime tunisino, qualcosa di terribile accadrà anche da quelle parti. E dalle nostre.
Nella cornice delle crisi locali è esplosa, fulmine a ciel sereno, la guerra in Israele. È bastata una giornata di orrori scatenati dai tagliagole di Hamas per far sparire dai media occidentali il quotidiano stillicidio delle notizie dal teatro di guerra russo-ucraino. Già questo particolare sarebbe sufficiente ad assegnare un punto a Vladimir Putin. Ma c’è dell’altro. Lo sgomento per le stragi d’innocenti ha fatto perdere di vista il gigantesco fatto politico che si è prodotto con la mossa proditoria di Hamas: la saldatura, nella lotta a Israele e all’Occidente cristiano, liberale e democratico, tra il regime sciita di Teheran e un’organizzazione terroristica d’ispirazione religiosa sunnita. Se non si conosce la storia d’irriducibile inimicizia che da secoli divide l’Umma islamica non si può apprezzare la portata rivoluzionaria di un’alleanza assolutamente inedita. È noto che il movimento politico palestinese Hamas, rispetto al sunnismo tradizionale, sia da sempre un’anomalia, per il comportamento piuttosto disinvolto riguardo alla scelta dei partner con i quali combattere Israele. Di una relationship Hamas-Iran le fonti d’intelligence occidentali erano al corrente, ma non nelle dimensioni manifestatesi in occasione dell’attacco allo Stato ebraico in queste ore. L’atto terroristico portato su larga scala è stato preparato in mesi; altrettanto tempo è occorso per ammassare armi e risorse finanziarie all’interno della Striscia di Gaza; tempo è servito per addestrare i terroristi di Hamas a muoversi sul terreno con la preparazione propria di un esercito regolare perfettamente addestrato. Chi è stato a fare tutto questo? Lo stesso soggetto che ha esultato per la ferita mortale inflitta al nemico ontologico che reca la stella di David: l’Iran degli Ayatollah.
Eccola, dunque, la tremenda novità, sunniti che cooperano con i “nemici” sciiti per conseguire il medesimo obiettivo: la distruzione d’Israele e il ripiegamento dell’Occidente su sé stesso. L’azione di forza condotta da Hamas ha avuto anche un altro scopo, funzionale alle mire espansionistiche iraniane. Basta guardare una carta geografica del Medio Oriente e del Mediterraneo per rendersene conto. Dopo anni di isolamento l’Iran vuole uscire dall’angolo in cui la sintonia delle potenze occidentali con alcune dinastie arabe del Golfo l’hanno relegato. Consapevole del fatto che, dopo il quadrante dell’Indo-Pacifico, il secondo centro planetario dove si giocano i destini dell’umanità sia il Mediterraneo orientale con una propaggine che raggiunge il Mar Nero, Teheran ha deciso di essere della partita diventando la prima potenza regionale. Può farlo, in parte riannodando il filo del legame religioso con le comunità sciite che vivono fuori del territorio iraniano, in parte stringendo alleanze con quelle fazioni dell’universo sunnita pronte a combattere le componenti riformiste e moderate del loro mondo e a radicalizzare la lotta contro Israele e l’Occidente. La strada da Teheran al Mediterraneo è più breve di quanto le carte geografiche non mostrino. A Ovest del confine iraniano c’è l’Iraq, dove la popolazione è al 65 per cento di fede musulmana sciita. Proseguendo c’è la Siria. Lì, la maggioranza della popolazione è sunnita ma è presente un’ampia minoranza di fede sciita e di altri filoni religiosi collegati allo sciismo. Sono gli alauiti, gli imamiti, gli ismailiti, gli zayditi. Particolare decisivo è che il presidente Bashar al-Assad, come prima di lui suo padre Hafiz – ispiratore e leader dagli anni Sessanta del secolo scorso dell’ideologia modernista, panaraba e nazionalista del baathismo, egemone in Siria dai tempi del colpo di Stato del 1970 – e come i vertici civili e militari dello Stato, appartiene alla minoranza alauita. Dopo la Siria, il Libano. Nella terra dei cedri lo sciismo è radicato dagli albori dell’Islam, ancor prima che prendesse piede in Iran. Si narra che Abu Dharr al-Ghifari, compagno del Profeta Maometto e sostenitore dell’Imam ‘Ali, fosse stato esiliato durante il terzo califfato a Ruzbah, località dell’allora Grande Siria. L’odierna geografia religiosa libanese, fotografata in un report del Dipartimento di Stato Usa del 2019, indica un sostanziale equilibrio demografico tra sunniti (31,9%) e sciiti (31%) – a fronte del 32,4 per cento cristiano – ma alla componente sciita vanno aggiunte le piccole comunità di alauiti, ismailiti e drusi, presenti sul territorio. In Libano, a fare pressione su Israele lungo il confine meridionale, opera dalla metà degli anni Settanta il movimento islamico sciita Ḥezbollāh (Partito di Dio). Oggi i suoi miliziani sostengono, anche con azioni diversive sul confine israelo-libanese, l’iniziativa bellica di Hamas. Se tracciamo una linea per collegare i punti geografici che intercorrono tra Teheran e le sponde siriana e di Gaza del Mediterraneo e considerando la presenza strategica degli interessi russi in tutti i Paesi attraversati dall’immaginaria linea tracciata, risulta evidente che la concentrazione di un polo omogeneo signoreggiato dall’Iran e che risponda agli ordini di Mosca costituisca un altro tassello geometricamente disposto dal burattinaio assiso al Cremlino sul mosaico, da lui disegnato, del multipolarismo, il cui obiettivo prioritario è la destabilizzazione dell’Occidente congiuntamente alla fine della primazia statunitense quale “gendarme del mondo”.
Un successivo tassello potrebbe essere il definitivo congiungimento della strategia espansionista iraniana a quella dell’organizzazione sunnita dei Fratelli musulmani, organizzazione transnazionale, nata negli anni Venti del secolo scorso allo scopo di riunificare la Umma islamica sulla base del ritorno all’applicazione integrale dei precetti coranici e alla ricollocazione del Jihad al centro della vita del credente in Allah. Con lo sciismo politico la Fratellanza musulmana condivide la lotta all’occidentalizzazione delle società islamiche e quella alla separazione tra ordinamento civile e regola religiosa, che è una delle chiavi di volta del processo riformista islamico. Se una tale alleanza dovesse giungere a saldatura non possiamo neanche immaginare quali pericoli correrebbe la nostra civiltà. La rottura culturale intervenuta tra l’Occidente e la Russia potrebbe spingere Mosca a incentivare la levata integralista a cui Hamas sta chiamando le popolazioni musulmane del Medio Oriente.
Per dirla in linguaggio fantasy, gli ingenui ragazzi delle cancellerie occidentali hanno scoperchiato un vaso da cui è fuoriuscito un demone distruttore con il quale adesso devono fare i conti. In Italia siamo stati parecchio sfortunati perché abbiamo avuto a che fare – e ancora oggi dobbiamo subirne la disperante presenza – con gli “inutili idioti” della sinistra progressista. Questa, per trent’anni, non ha saputo fare di meglio che infamare e deridere Silvio Berlusconi, l’unico che aveva capito, ben prima che tutti i “grandi della Terra” lo intuissero, che un personaggio della stazza di Putin sarebbe stato meglio tenerselo stretto come amico invece che andare a provocarlo fin fuori l’uscio di casa. Ora ciò che ci deve preoccupare è di impedire che il mosaico putiniano si completi. Sarebbe bello farlo alla maniera israeliana, ma non si può perché Mosca non è Gaza. Vanno ricercati in fretta altri sistemi. Un negoziato su basi realistiche per un cessate-il-fuoco in via permanente che chiuda la partita ucraina sarebbe uno di questi.
di Cristofaro Sola