Il Vangelo migratorio secondo Marco (Minniti)

venerdì 6 ottobre 2023


Marco Minniti – già esponente di spicco del Partito Democratico, ministro dell’Interno del Governo Gentiloni, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega ai Servizi di sicurezza nei Governi Letta e Renzi – in passato si è reso protagonista di una svolta radicale nell’approccio alla questione dei migranti dall’Africa verso il Sud dell’Europa.

Per i progressisti, Minniti è un personaggio scomodo. Nondimeno, rimane un politico pensante, cosa che fa di lui merce rara. L’ex titolare dell’Interno torna sul tema immigrazione dalle colonne de Il Foglio, occupandone mezza edizione il 2 ottobre scorso, per rendere una testimonianza “ex cathedra”. Qualcuno direbbe: tanta roba. Qualcun altro, che ha letto il “saggio breve”, è di parere contrario: molto fumo e poco arrosto. Intendiamoci, non tutto ciò che egli scrive è sbagliato. Alcune considerazioni sono condivisibili. Purtuttavia, l’idea complessiva che si ricava dalla lettura dell’articolo è che si tratti di un minestrone di stereotipi e di luoghi comuni, preparato allo scopo di dare un tocco di stile alle posizioni della sinistra sul fenomeno migratorio.

Sostiene Minniti: “I fondamentali ci dicono prima di ogni altra cosa che le migrazioni non sono un’emergenza come si continua a pensare... Sono, bensì, una componente strutturale di questo pianeta. È pura tautologia: si emigra perché il genere umano emigra sin dai suoi albori. Con tutto il rispetto per l’intellettuale di vaglia, un’asserzione del genere non sta in piedi. Non è possibile paragonare i fenomeni migratori del passato con quelli dell’attuale momento storico. La visione di Minniti – che risente delle influenze degli studi marxisti su cui si è formato da giovane dirigente comunista – si fonda su una concezione deterministica del fenomeno migratorio, rappresentato come effetto necessario e invariabile di fattori causali iscritti nel divenire progressivo della umanità. Del genere: accade questo perché non può accadere nulla di diverso. Un pensiero di destra un tale nesso causale lo rifiuta in linea di principio.

Altro luogo comune su cui insiste Minniti sta nell’attribuire ai cambiamenti climatici la motivazione dei flussi – rinominati “movimenti” – migratori. Eppure, non siamo alla glaciazione di parte del pianeta. E neanche alla desertificazione. Attribuire al clima la principale causa della fuga dall’Africa è errato. Un esempio, per intenderci. Secondo i dati del ministero dell’Interno, la nazione di maggiore provenienza dei clandestini sbarcati in Italia quest’anno è la Guinea (16.465). Lo Stato dell’Africa occidentale ricco di risorse minerarie, ex colonia francese – popolazione al 31 dicembre 2022: 13 milioni 260mila – è attraversato da numerosi fiumi di cui il più importante è il Niger. La morfologia del territorio varia dalla fascia marittima piatta della bassa Guinea, agli altipiani di Fouta-Djallon nella media Guinea a quella montuosa dell’alta Guinea, caratterizzata dalla savana. Nel sud-est è presente una significativa forestazione pluviale mentre solo una ristretta porzione di territorio dell’estremo nord-est del Paese è desertico. Il clima è prevalentemente umido. Le precipitazioni medie si attestano sui 4.300 millimetri di pioggia annui. L’agricoltura impegna il 75 per cento della popolazione e concorre per un quinto alla formazione del Prodotto interno lordo. Il tasso di disoccupazione al 2022 è al 5,7 per cento, in calo di un punto rispetto all’anno precedente; il tasso di crescita annuale del Pil è del 4,7 per cento (3,9 per cento nel 2021). Ora, sostenere che si fugga dalla Guinea per il clima è roba da stereotipo obsoleto. Dalla Guinea si va via per altre ragioni, non per la guerra o per il clima.

Minniti, poi, cede alla narrazione del falso mito dei migranti quali i più poveri tra i poveri del mondo, anch’essa figlia di un pregiudizio ideologico terzomondista drammaticamente datato. Nel 2017, Anna Bono, ricercatrice presso la cattedra di Storia e istituzioni dell’Africa dell’Università di Torino, ha pubblicato un saggio che aiuta a comprendere le vere ragioni che spingono gli africani a emigrare verso il Nord del pianeta. Lo studio dimostra, con evidenza scientifica, che i clandestini provengono in prevalenza dai ceti medio-bassi delle società africane. Ciò spiega la capacità finanziaria di cui è dotata la maggioranza degli immigrati di rispondere positivamente alle richieste di denaro dei trafficanti per il traghettamento sulle nostre coste, valutate tra i 5 e i 10mila dollari usd pro capite. Anche Milena Gabanelli de Il Corriere della Sera – non tacciabile di simpatie di destra – evidenzia, in report sul tema, che “negli ultimi sei anni, su 1 milione e 85mila migranti africani sbarcati in Europa, il 60 per cento proviene da Paesi con un reddito pro-capite tra i 1000 e i 4000 dollari l’anno, considerato medio-basso dalla Banca Mondiale per il continente africano. Il 29 per cento tra i 4 e i 12mila dollari, ossia medio-alto; il 7 per cento da Paesi dove c’è un reddito alto, sopra i 12mila dollari, e solo il 5 per cento dai Paesi poverissimi, con un reddito sotto i mille dollari. Si tratta di numeri incontrovertibili che nulla hanno a che fare con la tentazione qualunquista di giudicare gli immigrati dalla buona salute di cui godono, dalle scarpe firmate che indossano al momento dello sbarco e dai cellulari costosi che posseggono. Nella maggior parte dei casi le ragioni che spingono soprattutto i giovani a tentare la strada della migrazione sono legate al desiderio, legittimo, di vivere una vita agiata, all’europea. Si può ben dire che costoro, ancor prima di essere vittime delle atrocità dei trafficanti di esseri umani, sono succubi dell’immagine sugli stili di vita a colori che la vecchia Europa dà di sé attraverso la propaganda che transita sulle reti telematiche.

Non sbaglia Minniti nell’affermare che “l’Italia... rappresenta il ponte naturale tra l’Europa e l’Africa”. Ciò che omette di precisare è la circostanza che si tratti di un ponte asimmetrico: più largo all’imbocco nella parte meridionale e terribilmente stretto in quella settentrionale. Ne consegue che vi sia minore interesse degli Stati del Nord di farsi carico dell’accoglienza di chi proviene dall’Africa di quanto ve ne sia negli immigrati di terminare il proprio viaggio non nella parte Sud del Vecchio Continente ma nei Paesi ricchi del Nord Europa. Da qui la difficoltà italiana di trasformare, ai fini dell’accoglienza, il problema degli eccessivi sbarchi da locale a comunitario.

La soluzione che prefigura Minniti di un patto del Mediterraneo è nell’ordine delle cose. Qui, il politico cresciuto nel Pci dà implicitamente ragione alla scelta della Meloni di dialogare e interagire con i Governi del Nord Africa, indipendentemente dal grado di democrazia raggiunto da questi Paesi. Che è l’opposto di ciò che sostengono gli odierni progressisti. Tuttavia, protagonista del dialogo non può essere l’intera Europa ma solo il versante meridionale di essa. Una collaborazione tra Unione europea e Unione africana sulla questione del controllo delle migrazioni al momento è pura utopia. Può, viceversa, funzionare il tentativo messo in campo dall’Italia di stringere accordi bilaterali con gli Stati di provenienza dei clandestini. Poco potrà servire l’apporto della Francia in tale opera di ricucitura del dialogo Sud-Sud. Già, perché l’attento Minniti sfiora soltanto il tema della responsabilità francese negli eventi migratori che stanno tormentando l’Italia. A sinistra non si ha il coraggio di ammetterlo, ma la colpa principale della destabilizzazione nell’Africa occidentale, da cui proviene il maggior numero di immigrati, è ascrivibile al comportamento predatorio avuto in passato dalla Francia, potenza coloniale che ha continuato a esercitare la sua influenza in Africa ben oltre la fine del colonialismo. Le ribellioni e i colpi di Stato che stanno interessando i Paesi dell’Africa subsahariana sono la reazione violenta alla condizione di servaggio imposta dalla logica della Françafrique. Concordiamo con Minniti che l’Africa debba essere percepita come fonte di opportunità per gli occidentali e non come una minaccia incombente. Ma la ricetta non è quella di accoglierli tutti. Più utilmente, si dovrebbe implementare il piano di formazione in loco delle giovani generazioni di africani affinché possano integrarsi nei processi produttivi autoctoni, agevolati e migliorati dall’adozione di tecnologie avanzate. Ciò non esclude che possano essere prese in carico limitate quote d’immigrati da impiegare all’interno del nostro apparato produttivo. Non certo, però, per risolvere il problema del calo demografico della nostra società, come invece vorrebbe Minniti.

Il “saggio” pubblicato su il Foglio ha un indubbio pregio: leggendolo capiamo cosa non fare per risolvere il problema. Troppo tranchant il giudizio? Mettiamola giù così: a suo modo, reca anch’esso un costruttivo contributo al dibattito in corso.


di Cristofaro Sola