Gli animalisti, l’ago e il pagliaio

lunedì 4 settembre 2023


Nella mentalità di ambientalisti, animalisti e catastrofisti in genere c’è una marcata attitudine a porre al centro delle proprie visioni una variabile centrale e a trascurare tutto il resto. L’idea della natura, vista come bene assoluto o quella di una specie animale da salvare a ogni costo sono esempi di questa dogmatica e stolta propensione. Ciò che viene trascurato in tutte le battaglie per la difesa di questa o quella specie è la complessità dei sistemi biologici messa in luce già dagli anni Sessanta, per esempio, dagli studi di Ludwig von Bertalanffy o di Edward Norton Lorenz. Quest’ultimo, in particolare, è noto per la sua battuta, che andrebbe discussa in altra sede, circa la possibilità che il batter d’ali di una farfalla in Brasile provochi un tornado in Texas. La questione riguarda la rilevanza delle condizioni iniziali in cui si trova un sistema per la sua successiva dinamica non lineare. In soldoni, la morale che si può trarre è che mettere le mani in un sistema è sempre un fatto a rischio: sappiamo come iniziare ma quasi mai sappiamo come andrà a finire. Ovviamente questa regola non è emendabile e il genere umano, fra intuizioni valide ed errori di valutazione, ha sempre dovuto inevitabilmente accettare la propria sorte, bella o brutta, ogni volta che, agendo, ha mutato qualche condizione iniziale.

Ora, in ambito animalistico, la difesa di questa o quella specie appare, agli occhi dei suoi protettori, come un gesto non solo eticamente necessario ma anche razionale poiché, si dice, in questo modo si difende la biosfera e l’ambiente naturale. Questa posizione, in realtà iper razionale, trascura esattamente la complessità di cui sopra. Ciò non significa, sia chiaro, che si possa procedere all’abbattimento arbitrario di qualsiasi animale in qualsiasi contesto, poiché è del tutto prudente limitarci a due regole: assicurarci l’alimentazione da un lato (magari mitigando le procedure) e difenderci dall’aggressione fisica. Regole dure ma che non ci siamo date noi essendoci state consegnate proprio dalla tanto adorata natura.

La difesa di una specie in via di estinzione non è, di per sé, un fatto da incoraggiare – se non per comprensibili ragioni estetiche o affettive – poiché nessuno sa quale è l’equilibrio o, se si vuole, lo stato iniziale in cui si trova la biosfera nel momento in cui intendiamo intervenire su di essa e, meno che meno, come essa evolverà sulla scorta delle nostre azioni. Il sistema complessivo della natura è da sempre altamente dinamico e sensibile ad ogni variazione: mettere le mani su una specie, cioè su una variabile ritenuta arbitrariamente centrale, nonostante le buone intenzioni, significa mettere in azione una serie intricatissima di interazioni e aggiustamenti decisamente imprevedibili la cui probabilità di rispondere alle nostre intenzioni è sicuramente molto bassa. Le specie viventi attualmente sono alcune decine di milioni e nessuno è in grado di pianificare la loro coesistenza, fra l’altro ponendo al centro la specie umana. Per questo i piani per il ripristino di una specie in via di estinzione hanno sicuramente effetti, ma quasi mai coincidenti con il ritorno ad uno stato precedente anche perché, nel frattempo, il sistema complessivo è già mutato. Inoltre, simili interventi sono sempre, per forza di cose, locali e riguardano quindi questa o quella regione del mondo senza tenere conto delle retroazioni che, sul piano globale, i ripristini forzati inducono inesorabilmente.

Una recente e ingenua dichiarazione televisiva dell’esponente verde Angelo Bonelli in merito alla decisione, per lui inopportuna, di ridurre con la forza il numero di cinghiali e di lupi che invadono varie località, può servire a renderci conto dell’inclinazione ben poco affidabile della mentalità animalista. Secondo costui non si devono abbattere né i lupi né i cinghiali, anche perché, udite udite, i principali predatori dei secondi sono proprio i primi. Non oso credere che Bonelli volesse perorare la causa dei lupi, incoraggiandone l’aumento numerico in modo che ci liberino dai cinghiali. Vorrei solo osservare che è esattamente questo l’errore di chi pensa di avere le chiavi per capire e, poi, per pianificare sistemi molto più grandi di lui. L’errore e la miopia consistono nel fatto che proteggere ulteriormente i lupi significherebbe dare a quella specie un innaturale vantaggio evolutivo, grazie al quale, dopo qualche tempo, dovremmo ricorrere ad un’altra specie (le tigri?) per liberarci di orde di lupi sui marciapiedi.

In definitiva, l’uomo ha da sempre perseguito i propri scopi instaurando un rapporto con il resto della natura ambivalente: da un lato sfruttandone le risorse e, dall’altro, modificandone vari aspetti. Tutto sommato non c’è andata male, ma le quantità, demografiche, economiche, industriali oggi in gioco suggeriscono certamente di usare prudenza in vari campi. Purché si eviti di affidarci a chi si crede in possesso della giusta strategia per controllare la complessità nel suo insieme. In effetti, riportare ordine nella natura (quale ordine? di quale secolo?) è come pensare di essere in grado non solo di trovare l’ago nel pagliaio ma, una volta trovato, di riporlo nel suo posto originario mentre il pagliaio ha già radicalmente cambiato fisionomia a causa del caos creato da chi vi ha messo le mani per reperire l’ago.


di Massimo Negrotti