Macché Gramsci, meglio Zaki

martedì 1 agosto 2023


Cade il muro di Berlino e il termine “comunismo” inizia a provocare allergia.

Si comincia a parlare al plurale, vaghe sinistre, magari non lontanissime dal centro, e aleggiano inconfessabili democristianismi. Senza la disciplina del Bottegone tutto è diventato possibile e sempre più vago. Si dice, si ipotizza, ma sempre in un certo senso, non si sa in quale. Niente ha valore assoluto, e questo sarebbe un bene se non fosse che il concetto stesso di nuova sinistra è diventato un franchising scaduto prima ancora di essere depositato.

Poi, improvvisamente, qualcuno scopre di poter gestire la politica come un prodotto di consumo, e pubblicitari occulti cercano ovunque testimonial che facciano notizia. Possibilmente famosi, non importa affatto se di sinistra. Alla fine diventano i veri protagonisti della campagna, e a loro si chiede solo di punzecchiare la destra, foss’anche sulla foggia di un abito o su un’istantanea corrucciata.

Da quando i piani alti hanno partorito questa geniale strategia non servono più dotti, medici e sapienti di estrazione vagamente gramsciana, basta una Ferragnez qualunque: attira i giovani, non si dichiara mai di sinistra, ma schifa quei “fascisti” che snobbano le sue ciabatte pacchiane da duecento euro.

Va bene così, ed è proibito ricordare che la senatrice Ilaria Cucchi, eletta con il voto piagnone, aveva preso le distanze dal fratello in vita, per poi usarne la memoria nell’urna, e non certo cineraria.

Nell’ex-sinistra si è fatta strada dunque l’idea di sostituire l’ideologia con il marketing. Non si studiano più le radici socialiste, quasi nessuno ha tempo per farlo. Basta l’immagine: Aboubakar Soumahoro è nero, dunque perfetto: eleggilo, sbattilo in prima pagina mentre mostra il fango, e i politicamente corretti lo vedranno come il paladino, il liberatore di quegli immigrati con i quali sappiamo come si è comportato.

La stessa scelta della Schlein al posto di un politico vero rivela quale rivoluzione si voleva innescare: immagine superficiale, bisex, internazionale, grande oratrice del nulla sottovuoto. E pure ricca, ma essere anti-fascisti non significa essere poveri.

Citare le ultime gesta di Alain Elkann, non padre, ma nonno di Repubblica, il quotidiano che un tempo fu di sinistra, sembra una scorrettezza troppo facile, come quella di additare i riti macabri con cui Michela Murgia ci delizia quasi quotidianamente.

Ma il piccolo egiziano che sorride pieno di gratitudine verso i suoi sponsor, quelli che stanno sul fronte opposto di chi l’ha liberato veramente, è la prova che ormai si è perso il controllo, il segno, il senso delle cose. Gli regalano una laurea inutile, forse lui neppure sa di che cosa si tratti. Qualcuno gli suggerisce quello che deve dire in inglese, perché non conosce la lingua in cui è dottore on-line dell’antichissima università di Bologna, la città che punisce i ricconi in Panda multandoli se sfrecciano a trentacinque orari. Patrick si degna di ringraziare il Governo, certamente gli piacerebbe il volo di Stato ma il cerimoniale vergato dal dottor Balanzone prevede un aereo proletario, poi festeggiamenti in piazza Maggiore, non certo nella Roma meloniana.

I sapienti del Partito Democratico non hanno trovato di meglio che scoprire e coltivare personaggetti che poi andranno in Parlamento, per la gioia di chi ama le storielle a lieto fine. Ma forse un giorno qualche bocciato dall’Alma Mater si chiederà se e come il dottor Zaki fosse più preparato di lui, e qualche trombato alle elezioni vorrà sapere quale formazione politica avesse maturato la senatrice Ilaria.

Insomma, il numero degli eletti del partito che si definisce democratico diventa un problema secondario: quello principale è capire quanti operativi restano, al netto degli specchietti per le allodole.


di Gian Stefano Spoto