giovedì 27 luglio 2023
L’ideologia Green fa bene alla salute? Una cosa sola è certa: per ora, a colorarsi di verde (tonalità del dollaro) sono le tasche infinitamente capienti di chi possiede e gestisce le fabbriche di denaro mondiali. Per capire questo punto di vista radicalmente politically not correct occorre partire dalla critica a un certo ideologismo totalitario della Green Left europea e mondiale (si veda l’intervento schierato di Ezio Mauro su La Repubblica del 24 luglio, e il brillante controcanto in risposta di Giuliano Ferrara sul Foglio del giorno successivo) che vorrebbe sanzionare, quanto meno con ammende amministrative, se non penalmente, qualsiasi posizione “negazionista” in merito alla presupposta e attuale Emergenza climatica. In questo particolare quadro, viene a configurarsi un nuovo totalitarismo verde che, con la scusa della salvezza dell’umanità, si fa servente di ben altri fini. Vediamo quali. A seguito della globalizzazione (e del conseguente allungamento inevitabile) delle catene di valore, si è assistito negli ultimi trenta anni a imponenti delocalizzazioni produttive che, in primo luogo, hanno desertificato la maggior parte degli spazi produttivi della terza generazione industriale occidentale. Quella cioè ancora caratterizzata da un’alta componente di impiego di manodopera e da un basso know-how di tecnologia avanzata per bene prodotto. A beneficiarne, pertanto, sono state soprattutto le grandi (Cina e India) e piccole Nazioni asiatiche, in cui il costo della mano d’opera era pari a una frazione di quella occidentale. Con la desertificazione industriale del Global West, si sono create vastissime aree industriali abbandonate (le così dette Rust Belt, o distretti della ruggine) e molte decine di milioni di blue collar (letteralmente: quelli della classe operaia) si sono trovati progressivamente disoccupati e destinatari dell’assistenza pubblica.
Questa macchina planetaria della produzione e consumo, sottesa dall’utopia della crescita economica illimitata, è venuta nel tempo a mostrare tutti i suoi enormi, drammatici limiti per l’altissimo tasso di inquinamento urbano e l’avvelenamento di una parte significativa delle terre emerse e degli oceani di questo pianeta. È chiaro, allora, che da questo punto di vista occorreva tornare indietro il più rapidamente possibile, per evitare l’autodistruzione del pianeta e l’esaurimento di tutte le sue risorse naturali. Il problema è che bisognava farlo aumentando significativamente la ricchezza di chi era già incomparabilmente ricco, per garantire alle fabbriche di denaro di poter continuare a girare a pieno regime. Allora, ecco apparire all’improvviso, come per magia, il coniglio dal cilindro del Capitalismo finanziario: mettere in circolo enormi risorse pubblico-private per la costruzione di un nuovo sistema industriale planetario (monopolizzato dal Global West) fondato su alti livelli di know-how di tecnologia green (le batterie solari e le macchine elettriche ne sono un esempio). Questo avrebbe messo progressivamente fuori gioco tutte le altre componenti industriali obsolete, che sfruttano energie inquinanti, come gli idrocarburi fossili e il carbone. Il gioco è chiaro: poiché i più grandi inquinatori mondiali per emissioni di CO2 sono la Cina e l’India, questo sta a significare l’emarginazione progressiva sui mercati internazionali dei loro prodotti industriali inquinanti.
Infatti, nel nostro emisfero economico il capitalismo finanziario può permettersi di mettere in circolo nel Global West qualcosa (Mario Draghi dixit) come parecchie centinaia di “triliardi” (in cui un triliardo = mille miliardi) di euro per la sua rivoluzione green. Mentre invece i Paesi emergenti e la Cina non possono fare altrettanto, dovendo fare la rincorsa tecnologica all’Occidente e non potendosi permettere di ridurre in povertà molte centinaia di milioni di lavoratori, oggi impiegati nelle produzioni industriali obsolete.
Tra l’altro, questo totalitarismo green si scontra con due formidabili ostacoli. Il primo riguarda le materie prime per produrre energia green, come batterie solari e auto elettriche, dato che Stati come la Cina si sono mossi per tempo acquistando vaste concessioni minerarie in Africa e in America Latina per la produzione di litio e delle altre terre rare necessarie. Il secondo, ancora più destabilizzante, riguarda il bilancio energetico e il risparmio di CO2 concernente l’intero ciclo di fabbricazione della componente hardware delle tecnologie green. A conti fatti, ne viene fuori che la forbice dei risparmi complessivi di CO2 tra “prima” e “dopo” sarebbe addirittura trascurabile, secondo stime di affidabili Istituti di ricerca internazionali, visti i costi molto elevati di smaltimento e riciclo dei materiali esausti, contenuti nei pannelli solari e nelle batterie per auto. In tutto ciò, a fronte del totalitarismo green, fa da presenza ingombrante il convitato di pietra del nucleare pulito (perché a emissioni-zero di CO2) di quarta e quinta generazione.
Sul punto resta sospeso il seguente, inquietante quesito: perché non si impiega una frazione modesta di quelle centinaia di triliardi di euro, disponibili per la riconversione green, per accelerare a livello mondiale la sperimentazione e ricerca nel campo della fusione nucleare? Ulteriore domanda: risponderà un giorno la testa acefala della gigantesca piovra delle multinazionali dagli immensi profitti (Gafam in testa a tutti!) al “perché” da molti decenni non si investe sul nucleare pulito? Ben sapendo tutti noi che i giganteschi profitti derivanti dallo sfruttamento mondiale delle energie fossili (controllati in regime di monopolio dalle grandi Major dell’energia del Global West e da quelle mediorientali) sono destinati a esaurirsi entro il secolo? Non sono forse proprio costoro che, approfittando della manna della rivoluzione green per investire nel settore parte dei loro immensi capitali, vogliono prolungare la transizione verde per mantenere quanto più a lungo possibile le loro risorse naturali e gli incomparabili profitti connessi, evitando di perdere immensi guadagni a causa della costruzione rapida di centrali nucleari sicure e non inquinanti?
di Maurizio Guaitoli