mercoledì 26 luglio 2023
“Nelle truppe degli intellettuali di sinistra militano solo piccolo-borghesi inaciditi”: così scriveva Nicolás Gómez Dávila, sostanzialmente riassumendo tutto ciò che è oggi l’erudito, cosa diversa dall’uomo di cultura, che guarda benevolmente a sinistra e all’area progressista. L’intellighenzia progressista oggi si auto-concepisce, infatti, come una forma di neo-aristocrazia, come una nuova classe “eletta” che poggia sulla causa del proletariato, ma che si eleva, sia in senso morale che in senso intellettuale, dalle miserrime condizioni dei popolani i quali diventano appunto dei barbari da cui stare lontani, da cui sentirsi estranei, da guardare con disgusto o quanto meno con sospetto.
Così, chi non sposa la causa progressista è un barbaro, chi non legge le letture progressiste è un barbaro, chi non ha il livello della coscienza progressista è un barbaro. L’etica progressista ben presto, fondandosi su un malcelato nichilismo di base, cioè sull’ostinata negazione della verità costitutiva della realtà, si trasforma in estetica progressista, così che il barbaro è anche il quindicenne che indossa le scarpe da ginnastica, che magari ascolta la musica nelle cuffie e che, pur tra gli schiamazzi e l’irruenza giovanile, escogita modi diversi per trovare delle ragazze con i propri amici in una assolata giornata di mezza estate su un treno.
Il giovane virgulto viene visto, così, come un lanzichenecco dall’intellettuale progredito, dall’aristo-progressista, che legge autori francesi e quotidiani finanziari inglesi inorridito da cotanto scempio dell’umano. Probabilmente, il lanzichenecco non sarebbe stato ritenuto tale se avesse indossato una gonna pur essendo maschio, se avesse avuto le unghie smaltate e avesse vestito una camicia arcobaleno sedendo militarmente composto – con un’aria altrettanto snob – e discutendo seraficamente, con luoghi comuni preconfezionati, di quanto questo Paese sia barbaricamente insensibile alla causa dell’emergenza climatica, dato che un operaio medio (cioè quello con lo stipendio da 24mila euro all’anno) non vuole acquistare una Tesla elettrica da 45mila euro per salvare il pianeta.
Il giovane lanzichenecco in preda alle scariche ormonali della sua età che lo spingono a procacciarsi una compagna nel periodo estivo è antropologicamente incomprensibile per l’aristo-progressista, che siede sul treno mentre con la sua stilografica prende appunti sul proprio taccuino. Chissà cosa mai avrà da appuntare l’aristo-progressista mentre l’umanità intorno a lui vive la propria semplicità in antitesi alla laboriosa complessità dei suoi pensieri, chissà cosa mai avrà da scrivere l’aristo-progressista mentre si stupisce dell’esistenza di un treno che compie delle fermate intermedie prima della sua meta finale!
Del resto, se Cristo si fermò ad Eboli, ben può il nostro aristo-progressista sostare brevemente a Benevento! E così, tra un fondo finanziario anglosassone e qualche rigo di scrittori parigini, tra un appunto profondo e uno sguardo di sorpreso disgusto per i suoi male assortiti compagni di viaggio, il tenero aristo-progressista sfida se stesso e la sua resistenza, rimanendo seduto accanto a cotanti barbari, stupito del fatto che essi non lo abbiano nemmeno notato (o che forse non l’abbiano effettivamente riconosciuto).
Sembra di sentire l’eco potente delle riflessioni proprio di un francese: non già di un sostenitore dell’Ancien Régime, cioè quello che divide l’umanità in caste elette e masse di barbari, ma di un figlio dell’Illuminismo, quindi della migliore tradizione razionale fondata sul Cristianesimo che ha scoperto l’uguaglianza degli uomini, come, tra gli altri, ebbe a notare Mazzini, cioè Charles-Louis de Montesquieu, il quale proprio nei suoi Pensieri ebbe a scrivere che “non c’è grande differenza tra lo stimare molto se stessi e il disprezzare molto gli altri”, insegnando quanto possa essere autoreferenziale e ingenua la mentalità radical chic, come quella che tanto di moda oggi è tra gli aristo-progressisti come gli intellettuali italiani che guardano a sinistra e che scrivono, o peggio, leggono quotidiani come La Repubblica.
Il cosiddetto lanzichenecco dotato di iPhone e tatuaggi, nonostante il palese disgusto provato dall’aristo-progressista, è tutto tranne che un barbaro: poiché è il prodotto di quella società secolarizzata e plasmata dai principi del cosiddetto progressismo che adesso cominciano a produrre i loro frutti e di cui, seppur a modo suo, l’aristo-progressista si è sempre fatto solerte interprete e diffusore.
Probabilmente, allora, la questione non si trova nell’endiadi tra il lanzichenecco e l’aristo-progressista, che in sostanza sono soltanto le due facce della stessa medaglia, ma in una terza via, cioè quella che si distingue dalle pratiche rozze dei cosiddetti lanzichenecchi così come dai giudizi moralistici degli aristo-progressisti, ovvero la via della civiltà, cioè la cultura dell’essere.
Civiltà e cultura, infatti, non si esprimono brandendo e sventolando semplicemente scrittori francesi o penne stilografiche, ma imparando a usare le seconde così che si possano scrivere cose degne di quelle insegnate dai primi. In questa direzione, dunque, non soltanto l’aristo-progressista dovrebbe vedere nel lanzichenecco se stesso, poiché decenni di progressismo contro l’autorità, contro l’educazione familiare, scolastica ed ecclesiastica, contro il “Lei” a favore del più anglosassone “you”, contro il libro a favore dell’ultimo gadget hi-tech, contro la cultura classica a favore della cultura tecnica, contro la stabilità delle relazioni a favore della fugacità del godimento, hanno incubato ciò che oggi si definisce come lanzichenecco, ma per di più oltre tutto ciò il lanzichenecco è – e rimane – un essere umano come l’aristo-progressista, cioè qualcuno di cui non si può negare l’imperfezione connaturata al suo essere, circostanza che sfugge, del resto, all’aristo-progressista proprio in virtù di quella sua imperfezione che egli, così preso da se stesso, tragicamente ignora.
Ma è proprio questo il punto, il punto focale che ha condotto nella storia alle guerre e agli stermini, fin dai tempi di Caino e Abele, e così fino alla fine dei tempi, cioè l’idea che qualcuno possa essere migliore di qualcun altro pur condividendone la natura imperfetta. In questo senso, e in conclusione, alla gioconda freschezza vanesia del pensiero francese e al pragmatismo sterile del pensiero anglosassone, si contrappone la lucida e rigorosa razionalità del pensiero russo, come ha insegnato il premio Nobel per la Letteratura, Iosif Brodskij, non a caso perseguitato dai progressisti sovietici che lo ritenevano un reietto e un barbaro in quanto non aderente alla morale progressista dell’epoca, allorquando ebbe a scrivere che “la radice di ogni male credo stia nell’affermazione: Io sono meglio di lui”.
di Aldo Rocco Vitale