lunedì 17 luglio 2023
Come è noto, sono stati repentinamente tolti a Salvatore Parolisi, che secondo la giustizia penale ha ucciso la moglie, Melania Rea, alcuni permessi che si era conquistato attraverso una condotta carceraria irreprensibile e collaborativa, tanto da svolgere un lavoro da centralinista nel carcere di Bollate, dove è detenuto da 12 anni. La colpa che gli viene attribuita, se così vogliamo definirla, è di aver rilasciato una intervista fuori dai denti a una giornalista di Chi l’ha visto?, professando ancora una volta la sua innocenza.
Mossa molto incauta, visto che le sue parole sono state raccolte e rielaborate a dovere da uno dei programmi televisivi più schiettamente colpevolisti, soprattutto quando sul banco degli imputati c’è il marito o il compagno di una vittima di omicidio (mi scuso, ma il termine “femminicidio” mi fa venire l’orticaria).
Sebbene, come ricorda il legale dell’ex caporal maggiore campano, per godere di alcuni benefici non sia necessario che un condannato confessi, al di là del chiacchiericcio femminista che si è scatenato intorno alle sue dichiarazioni, il fatto che lui prosegua a raccontare di essere stato condannato senza uno straccio di prova viene preso molto male dal circo mediatico, che tanto ha contribuito alla sua sorte.
In estrema sintesi, senza voler riepilogare una vicenda a mio avviso ancora avvolta in una densa nebbia, Parolisi è stato condannato non con una prova schiacciante che lo collegasse in modo incontrovertibile al luogo del delitto, bensì per una prova che non c’era: l’assenza di un riscontro che dimostrasse la sua presenza nel pianoro di Colle San Marco in un orario che, nel qual caso, ne avrebbe confermato l’alibi.
Per il resto, al pari di molti altri casi analoghi, solo congetture e tantissimi pettegolezzi televisivi, che hanno costruito un classico nesso causale tra la l’infedeltà coniugale, a cui si lega l’inevitabile propensione a raccontare frottole, e la volontà omicidiaria.
In pratica, anche in questa circostanza si è avuta l’impressione di una lenta ma inesorabile costruzione di un colpevole predestinato dove le prove indiziarie, assai stiracchiate, vengono adattate alla bisogna con il sostanziale supporto del solito circo mediatico colpevolista. Una sorta di giustizia teorematica, secondo una brillante definizione coniata da Alessandro Meluzzi, in cui prima si stabilisce l’autore del delitto e, successivamente, si vanno a cercare gli elementi, molto spesso estremamente suggestivi, che servono a farlo condannare.
A tal proposito, vorrei segnalare un imbarazzante commento postato su YouTube da parte della criminologa Roberta Bruzzone, all’epoca consulente della famiglia della vittima, la quale ha usato parole pesantissime ai danni di Parolisi, fino a considerarlo socialmente irrecuperabile. Per questo, fosse stato per lei, lo avrebbe seppellito a vita in una cella.
Non so perché, ma quando mi capita di ascoltare le requisitorie televisive di questa luminare delle Scienze forensi, mi vengono spesso in mente quelle numerose popolane parigine che, dopo il massacro durante la presa delle Tuileries – siamo nel 1792, in piena Rivoluzione francese – orinavano festanti sui cadaveri delle centinaia di guardie svizzere trucidate. Una pura casualità.
di Claudio Romiti