Crisi Russia-Ucraina: è l’ora del cessate-il-fuoco

martedì 27 giugno 2023


Non c’è alcuna gloria nel dire: l’avevamo detto. Eppure, è ciò che è accaduto. Sono mesi che, remando controcorrente, stiamo battendo sul tasto dell’estrema cautela nel valutare la situazione del conflitto russo-ucraino.

Una guerra di logoramento, che ha imboccato la strada dei tempi lunghi per la sua definizione, non conosce certezze ma vive di imprevisti, destinati di volta in volta a scompaginare il quadro complessivo. Lo scorso fine settimana è stato scosso dalla notizia del misterioso pronunciamento messo in piedi da Evgenij Prigožin, capo della Compagnia militare privata Wagner, contro i vertici della Difesa e dell’Esercito russi, accusati da Prigožin di aver tradito il popolo con la pessima conduzione dell’offensiva militare in Ucraina.

Com’è noto, il tentato putsch si è risolto in dodici ore grazie alla mediazione del grande alleato di Vladimir Putin, il presidente della Bielorussia Aleksandr Lukašenko. La Wagner si è ritirata interrompendo l’avanzata verso la capitale Mosca. Il Cremlino ha rinunciato a punire i partecipanti all’insurrezione armata e ha concesso a Prigožin un salvacondotto per recarsi in Bielorussia. Benché il pericolo di vedere precipitare la Russia in una guerra civile al momento appaia sventato, non si può dire che ogni cosa sia tornata al suo posto.

C’è preoccupazione per ciò che potrebbe ancora accadere a causa del mistero nel quale è avvolto il tentato golpe. Prigožin aveva fatto intendere chiaramente di voler mettere in discussione i vertici della Difesa russi. E che lo avrebbe fatto usando le maniere forti, era cosa nota al presidente Putin – oltre che all’intelligence statunitense – già da qualche giorno prima dello scoppio della rivolta. Allora perché nessuno al Cremlino si è preoccupato di fermarlo? Le truppe della Wagner, una volta raggiunto e occupato il centro di comando delle operazioni speciali in Ucraina, nella città di confine di Rostov sul Don, si sono mosse in direzione di Mosca. Anche qui un mistero: hanno percorso in poche ore centinaia di kilometri senza trovare alcuna resistenza efficace. Com’è stato possibile? Si sono fermati a meno di 200 kilometri dalle porte di Mosca perché Prigožin ha raggiunto un accordo con Lukašenko. Cosa ha ottenuto il capo della Wagner in cambio del suo ritiro? E cosa sarebbe accaduto se l’intesa non ci fosse stata?

Troppi interrogativi irrisolti per credere che le cose siano andate effettivamente come le fonti ufficiali le hanno raccontate. E poi, si è certi che il tentato colpo di mano sia tutta farina del sacco di Prigožin? Si fa fatica a crederlo alla luce del comportamento assunto dalle Forze armate regolari che, di fatto, non hanno ostacolato se non in modo flebile l’avanzata delle truppe mercenarie. La domanda è: chi tiene i fili che muovono il capo della Wagner? E, ancora, chi era il target del pronunciamento: il ministro della Difesa Sergej Shoigu, unitamente al capo di stato maggiore Valerij Gerasimov, o il presidente Vladimir Putin? O è stata una gigantesca messinscena per dare al presidente Putin l’opportunità di fare un repulisti all’interno del ministero della Difesa?

Risposte certe non ci sono. Fanno bene le cancellerie occidentali a camminare sulle uova e, soprattutto, a non esasperare la situazione inneggiando al possibile regime-change in atto al Cremlino. D’altro canto, solo dei governanti irresponsabili potrebbero unirsi all’entusiasmo sopra le righe mostrato dai vertici ucraini nel commentare gli accadimenti interni al Paese nemico e desiderare il crollo del regime putiniano. Come la cronaca di queste ore dimostra, se dovesse cadere Vladimir Putin l’alternativa al Cremlino potrebbe essere di gran lunga peggiore e più pericolosa. Quelli che dicono che lo scoppio della guerra civile in territorio russo condurrebbe l’esercito ucraino a una rapida vittoria sul campo vivono fuori dalla realtà. Evidentemente non è bastata la lezione della fine ingloriosa di Mu’ ammar Gheddafi per insegnare ai leader occidentali che nei regimi autocratici dell’Est e del Sud del mondo dopo la caduta di un tiranno delle due l’una: o ne arriva uno peggiore o vi è l’anarchia. La Russia non è la Libia. Una satrapia nordafricana non può reggere il paragone con la prima potenza nucleare del pianeta.

Ora, se l’Occidente nulla ha potuto per evitare il caos in Libia in questi anni, a maggior ragione non sarebbe in grado di fare fronte a nessuna delle due soluzioni previste in caso di eliminazione dello Zar Putin. Ciò che è accaduto deve fare riflettere su un punto dirimente nella valutazione del mondo russo. La democrazia, per come la si intende nell’Occidente sviluppato, non potrà mai essere patrimonio di una nazione che si regge sulla postura “imperiale” del suo governo. La chiave per comprendere la forza di cui gode Putin all’interno della società russa sta nella sua capacità di essere supremo punto di sintesi e di mediazione tra le numerose verticali di potere che controllano e gestiscono gli interessi stratificati di una società complessa, estesa, multietnica e disomogenea. Prigožin è la prova vivente di quanto fosse fallace la battuta circolata per mesi negli ambienti occidentali che suonava pressappoco così: “Se la Russia smette di combattere, finisce la guerra; se l’Ucraina smette di combattere, finisce l’Ucraina”. È vero il contrario: la sconfitta sul campo della Russia determinerebbe, a cascata, la sua implosione. I molti centri di potere diffusi tra le capitali dei piccoli e grandi Stati che compongono la Federazione Russa, svincolati dalla forza del potere centralizzato, reclamerebbero le mani libere per gestire in autonomia le risorse e le potenzialità dei propri territori. A quel punto, cosa accadrebbe dell’arsenale nucleare? In quali mani finirebbe? Una situazione del genere il mondo l’ha vissuta ai tempi del crollo dell’Unione sovietica. In quella circostanza, la transizione pacifica fu possibile sopravvivendo il nucleo centrale dell’ex impero sovietico. All’indomani del suo sgretolamento il nuovo corso politico, avviato a Mosca, avrebbe offerto garanzie di pace al mondo mantenendo il controllo dell’arsenale nucleare. Oggi, disintegrato il potere centrale, chi potrebbe fornire le medesime garanzie? Nessuno. Ecco perché la caduta di Putin non sarebbe affatto una buona notizia per l’Occidente.

Immaginate per un attimo cosa accadrebbe se al posto di questo “imperatore”, che comunque lo si giudichi ha avuto sufficiente lucidità per tenere il confronto con l’Occidente entro limiti di sicurezza accettabili, s’insediasse al Cremlino un personaggio dalla crudeltà e disumanità di un Prigožin. Il pianeta non potrebbe più dormire sonni tranquilli, posto che oggi vi riesca. Su una cosa possiamo concordare con i sostenitori di un estremistico ottimismo nell’appoggio alle ragioni dell’Ucraina: gli eventi di queste ore determinano una svolta sull’andamento del conflitto. Il gruppo degli alleati occidentali di Kiev deve valutare quale strada imboccare. Se spingere per l’accelerazione del conflitto sfruttando il momento di debolezza che tiene banco a Mosca, oppure approfittare dell’accaduto per avviare il dialogo cominciando dal far tacere le armi? Se davvero Prigožin ha azzoppato il potere putiniano – cosa al momento tutt’altro che chiara – per il capo del Cremlino l’unica via d’uscita per riprendere quota non sarebbe il ritiro delle truppe dal Donbass. Un Putin stretto all’angolo dall’ala dura del suo inner circle, che gli contesta di esserci andato troppo leggero nel colpire l’Ucraina, potrebbe essere portato a compiere quei gesti estremi da sempre temuti dagli occidentali.

Il raggiungimento di un cessate-il-fuoco permanente, invece, aprirebbe le porte a una soluzione negoziata per l’attribuzione della sovranità sui territori del Donbass al momento occupati dalle truppe russe. È l’unico modo per venirne a capo senza che nessuno ci rimetta l’osso del collo. Non ne esistono altri. La stabilizzazione della Russia deve stare a cuore alle cancellerie occidentali non meno della riconquista da parte degli ucraini dei territori perduti. Non c’è molto tempo. I pezzi del puzzle si sono messi improvvisamente in movimento. O trovano, ciascuno di essi, la giusta collocazione nel disegno generale o l’intero gioco salta.


di Cristofaro Sola