Javier Milei e Victoria Villarruel: i liberalconservatori in Argentina

venerdì 23 giugno 2023


Il prossimo 22 ottobre l’Argentina affronterà una tornata elettorale (presidente della Repubblica e metà dei parlamentari) decisiva per il futuro del paese, perché la situazione economica è sull’orlo del collasso, la popolazione è stremata da restrizioni di ogni genere, l’insicurezza dovuta alla microcriminalità dilaga, l’inflazione corre alla velocità della luce, i mercati esteri diffidano dello statalismo frutto di un pregiudizio ideologico anticapitalistico, la politica fiscale è talmente vessatoria che migliaia di attività produttive chiudono per disperazione, le dinamiche sociali sono guidate da una tirannide progressista che sta imponendo il politicamente corretto come nuovo vangelo laico, e la dialettica democratica è da troppi anni bloccata intorno al fronte dominante, composto dal peronismo nelle sue varie frange (e, secondariamente, dal radicalismo). Le elezioni di ottobre saranno dunque determinanti perché lo scontro è fra libertà e coercizione, liberismo e statalismo, imprenditoria e sussidi, valori tradizionali e amoralità progressista. E su queste coppie opposizionali si polarizzano i contendenti.

Al momento, la libertà è vicina allo zero. Eppure, l’Argentina come istituzione statale e nazionale nasce dal liberalismo, poiché appartenevano all’area del pensiero liberale i suoi fondatori, tra i quali spicca – per energia teorica e capacità legislativa – Juan Bautista Alberdi, che intorno alla metà del XIX secolo gettò letteralmente le «basi» (come recita il titolo di una sua opera) politiche, culturali e morali della Repubblica. A partire però dagli anni Trenta, quel filone aureo liberale si è inabissato come un fiume carsico, inghiottito da una terra fertile ma nel contempo aspra, che si rispecchia nella politica del paese, contraddittoria fino all’ossimoro: passionale e cruda, generosa e cinica.

Per quasi un secolo il liberalismo è stato messo al margine della scena politico-sociale; e la parola «liberale» è diventata blasfemia, condannata e sommersa dal profluvio retorico del populismo, di quella forma di teatro politico che trova in Juan Domingo Perón il suo massimo interprete. E un destino analogo ebbe il conservatorismo, la corrente di cui Julio Argentino Roca è stato uno dei maggiori esponenti, che dal liberalismo si differenziava solo per una più accentuata attenzione all’unità del territorio nazionale. Anche il partito conservatore, dopo aver dato ben sette presidenti della nazione nel quarantennio fra il 1874 e il 1916, venne logorato dalle paludi politiche del peronismo che si insediò a partire dal 1946, anno in cui vinse le elezioni il Partito Giustizialista, che salvo alcune interruzioni (giunte militari e presidenti radicali) continua a controllare il paese. In questo orizzonte intossicato dalla demagogia peronista e dal socialismo radicale, veniva detto che essere liberale o conservatore significava essere contro il popolo. Liberali e conservatori come «nemici del popolo»; una vecchia litania che dai giacobini del 1789 ai bolscevichi del 1917 è ancora in auge, e non solo in Argentina.

Questa paralisi politica consiste in tre aspetti convergenti: innanzitutto, le maglie per eleggere presidenti non peronisti sono sempre state molto strette (anche il più tendenzialmente liberista in economia come Carlos Menem apparteneva alla famiglia del peronismo, mentre Mauricio Macri, pure liberista in linea di principio, pagò dazio statalista ai radicali che erano con lui al governo); in secondo luogo, la politica peronista ha per lo più avversato imprenditori, artigiani e grandi agricoltori (quegli ambienti cioè che in Italia, per fare un esempio schematico, diremmo di Confindustria, Confartigianato e Confagricoltura), rendendo loro difficile creare un partito che li rappresentasse con speranze di successo, perché l’obbligatorietà del voto (una legge non proprio liberale) faceva inevitabilmente emergere la scelta preferenziale delle masse, nella quasi totalità devote al peronismo; e infine, sul piano teorico e perfino espressivo, i concetti di conservatorismo e liberalismo (insieme a quelli ad essi correlati come capitalismo, libero mercato, libertà individuale, proprietà privata, Stati Uniti) sono diventati nomi impronunciabili, pena l’esclusione o l’emarginazione dal consesso politico-sociale; ma poiché conservatorismo e liberalismo (con i loro correlati) sono i concetti chiave del mondo produttivo e, parimenti, di quello spirituale argentino, aver sostanzialmente escluso dalla ribalta politica questi due concetti significa aver penalizzato la possibilità d’espressione di questi ambiti essenziali per la crescita sociale di un paese.

Ma da qualche mese ha fatto irruzione sulla scena politica, sociale e culturale, un nuovo attore, anzi una coppia di protagonisti che potrebbe, dopo più di mezzo secolo, disincagliare la nave argentina dalle secche in cui il peronismo e il socialismo l’hanno trascinata. Javier Milei, economista liberale, liberista e libertario, e Victoria Villarruel, giurista conservatrice nei valori e paladina degli interessi nazionali (ma tutt’altro che nazionalista), sono i dioscuri del liberalconservatorismo argentino, strettamente vicini nelle idee, perfettamente amalgamati nella visione della società, e reciprocamente completantisi dal punto di vista politico, culturale e perfino caratteriale: esuberante e debordante Javier; equilibrata e controllata, ma determinata e tagliente Victoria.

I due hanno esperienze diverse ma da anni seguono un itinerario comune, e sono stati eletti alla Camera dei deputati nel dicembre 2021 con l’allora neonato partito La Libertad Avanza. Il candidato Milei ha svolto un’intensa attività professionale e, sempre in campo economico, un’attività divulgativa sui mezzi di comunicazione anche più innovativi, ha tenuto lezioni in alcune sedi universitarie, ha formato giovani economisti sulla base degli insegnamenti di Hayek e Mises; la sua vice Villarruel, avvocato di successo, ha studiato antiterrorismo a Washington, cattolica impegnata a difendere i valori morali in una società sempre più scristianizzata, ha fondato nel 2006 un importante centro di studi legali sul terrorismo e sulle sue vittime (CELTYV), per fare giustizia sui crimini dei gruppi eversivi marxisti che negli anni Settanta infestarono il paese (i Montoneros e l’Esercito rivoluzionario del popolo erano i più consistenti). Javier sferza le inerzie stataliste di un sistema economico guidato dall’ideologia e non dal mercato; Victoria denuncia i risvolti sociali, familiari e individuali del marxismo culturale che si è impossessato di centri nevralgici come scuola e formazione, mass media, mondo dello spettacolo e pure delle istituzioni.

I loro temi caratterizzanti sono quelli consueti di quello che in Italia è il centrodestra, adattati ovviamente alla realtà argentina: al classico law and order vengono affiancate le parole chiave del liberalconservatorismo, che in politica interna implicano libero mercato e libera impresa, fisco equo, separazione effettiva dei poteri, azzeramento o quasi dell’intervento statale nei processi economici e correlata liberalizzazione dell’attività imprenditoriale, piena apertura agli investimenti esteri, potenziamento delle forze dell’ordine e quindi aumento della sicurezza per i cittadini, difesa della nazione come dimensione fondamentale dell’esistenza storica di un popolo; nella politica culturale evocano le libertà personali correlate con la salvaguardia dei valori etici della tradizione ebraico-cristiana, difesa della tradizione culturale occidentale dalla micidiale aggressione della cancel culture che sta dilagando anche in Sudamerica, difesa della famiglia e della religione; e in politica estera propongono l’occidentalismo non globalista, vicinanza stretta con Stati Uniti e Unione europea, distanza politica netta dall’asse Cina-Russia-Iran e dai regimi socialcomunisti.

Entrambi spiccano per un coraggio che dovremmo definire eroico: Javier, perché diffondere il liberismo economico in Argentina equivale a sfidare il potere quasi assoluto dell’economia peronista dei sussidi, e quindi attirarsi gli strali di gran parte della casta politica, dei sindacati, delle organizzazioni della variegata sinistra e perfino di larghi settori ecclesiastici (da tempo la Chiesa argentina è sostanzialmente schierata sulle posizioni della teologia della liberazione o della teologia del popolo); Victoria, perché parlare di «vittime del terrorismo marxista» in Argentina è infrangere un tabù, toccare il santuario politico di quei già citati movimenti eversivi che oggi sono stati appunto mitizzati diventando intoccabili. Victoria vuole mostrare che accanto alle vittime della repressione militare vi sono quelle del terrorismo di sinistra, denunciare i criminali, difendere l’onore dei caduti e di chi è stato condannato ingiustamente, e patrocinare i sopravvissuti. In qualsiasi altro paese occidentale, l’azione di Villarruel sarebbe meritoria, elogiata e perfino sostenuta dalle istituzioni (come per esempio accade in Italia con l’unanime consenso delle forze politiche, anche della sinistra, a condanna dei crimini delle Brigate Rosse e bande consimili), mentre in Argentina viene osteggiata e colpita come se fosse l’emanazione del male. È evidente che dietro a questo atteggiamento aggressivo c’è un profondo e gravissimo problema, storico e psicopolitico, che si traduce in una volontà totalitaria di controllo della società e in un disegno unilaterale di interpretazione ideologica della storia. Anche contro questi spettri devono lottare i nostri due candidati.

Ecco perché il loro coraggio politico ed esistenziale diventa un simbolo della lotta per la verità e per la libertà, il simbolo argentino delle finalità perseguite dal conservatorismo e dal liberalismo in tutto il mondo, la versione australe del liberalconservatorismo europeo. Il loro sforzo deve perciò essere anche il nostro, dei liberalconservatori europei, dei conservatori e dei libertari statunitensi, affinché il cono sud del continente possa emanciparsi dalla sudditanza al socialcomunismo che è ritornato alla ribalta in quasi tutti i paesi dell’America Latina.

Javier Milei e Victoria Villarruel sono un ticket politico che in qualsiasi altro paese occidentale otterrebbe un sicuro successo, ma che in Argentina deve non solo passare le forche caudine di un peronismo diventato sistema (politico, sociale e perfino mentale), ma anche scontrarsi con quel partito centrista dell’ex presidente Macri che a rigor di logica dovrebbe essere loro alleato, e perfino subire il fuoco amico di quei liberali moderati che anziché unirsi ai liberisti e ai conservatori preferiscono accordarsi con il partito radicale (di centrosinistra). Ciò nonostante, il valore delle idee di Milei e Villarruel, e le loro qualità personali, stanno scaldando le menti e i cuori di tanti argentini che fino a poco fa non avevano mai sentito parlare di liberalismo né di conservatorismo in termini autentici ma solo in quelli denigratori e diffamatori usati dalla propaganda populista, peronista, progressista e marxista. E questo è già un merito – storico, politico e culturale – di enorme portata: nessuno prima di loro era riuscito, al massimo livello della comunicazione politica e con una così ampia diffusione popolare, a infrangere la barriera di fango e menzogne che era stata costruita intorno alle parole liberalismo e conservatorismo.

Ma anche i sondaggi sono buoni e ora, a meno di quattro mesi dalle elezioni, cominciano ad essere sufficientemente realistici: la coalizione di centrosinistra (macristi e radicali) e quella di sinistra (peronisti e kirchneristi) sarebbero appaiate al 25%, e i liberalconservatori al 24. Siamo pienamente in gioco, dunque. Javier e Victoria hanno aperto una breccia nel muro compatto e composito del populismo e del progressismo, e come abbiamo visto nel caso del Muro di Berlino, talvolta basta una piccola spinta affinché un colosso che si regge sulla prevaricazione e sulla menzogna crolli.


di Renato Cristin