venerdì 16 giugno 2023
Io che ho spesso criticato con una certa durezza alcune scelte dei governi guidati da Silvio Berlusconi, oggi, in una lettura retrospettiva della sua lunga vicenda politica, debbo rilevare che c’è stata una questione la quale, durante il suo primo e sfortunato Esecutivo, è probabile che abbia modificato considerevolmente il suo modo di agire, rendendolo ancor più “concavo o convesso” rispetto a quanto già sosteneva di poter essere (mi riferisco alla tentata riforma delle pensioni del 1994, a poche settimane dal suo arrivo nella stanza dei bottoni). E che, incontrando una fierissima opposizione interna da parte della Lega Nord, contribuì in modo determinante alla caduta di un Governo che nasceva all’insegna di una rivoluzione liberale tutta da inventare. Rivoluzione liberale che, coerentemente con la logica dei numeri e dei conti, non poteva prescindere da una sostanziale riduzione del perimetro pubblico, di cui il capitolo di uno dei più generosi sistemi previdenziali d’Occidente rappresentava e tuttora rappresenta un nodo ineludibile da affrontare.
Ebbene, il partito di Umberto Bossi, preoccupato dall’esito delle elezioni europee, in cui l’ondata berlusconiana aveva cominciato a prosciugare i consensi dei propri alleati, prese a pretesto soprattutto il tema delle pensioni per sfiduciare il primo Governo di centrodestra della cosiddetta Seconda Repubblica. In questo senso, il quasi concomitante avviso a comparire, ancora oggi erroneamente scambiato per un avviso di garanzia, recapitato al Cavaliere mentre presiedeva una conferenza internazionale sulla criminalità a Napoli, fu solo il colpo di grazia finale per una maggioranza politica che si era già sostanzialmente sfaldata. Inoltre, il tentativo appena abbozzato di mettere in sicurezza la spesa previdenziale suscitò una grande mobilitazione di piazza da parte dei sindacati tradizionali, sostenuto in questo dai partiti di sinistra. Furono indetti scioperi generali a raffica con manifestazioni oceaniche come non si vedevano da tempo.
In sostanza, in quel primo e, a mio avviso, genuino sforzo di invertire la nostra storica tendenza a regalare prebende e vitalizi in cambio di consensi – tendenza che ancora oggi trova un evidente corrispettivo nel reddito di cittadinanza di stampo grillino – Berlusconi sperimentò di persona, e in modo particolarmente traumatico, il significato della famosa frase espressa alcuni lustri addietro dal socialista Rino Formica, secondo cui “la politica è sangue e merda”.
Sta di fatto che da quel momento si avvertì nel berlusconismo, anche durante le fasi in cui esso era all’opposizione, una sempre maggior cautela nell’approccio liberale, tanto da perdere molto rapidamente quella primigenia spinta che tante speranze aveva suscitato in una parte della nostra società. In pratica, per riuscire a restare sulla scena da protagonista fino alla sua dipartita, l’Uomo di Arcore ha dovuto adottare con grande abilità una sorta di realpolitik che non ha abbattuto il regime burocratico e assistenziale che ingessa da decenni il Paese, ma è comunque riuscito a mantenere accesa quella flebile fiammella di liberalismo appena accennato, che in un simile sistema non è poca cosa.
Probabilmente, aveva ragione lui. Forse, considerando l’estrema complessità di un sistema ingessato fino al midollo, il sostanziale immobilismo nelle riforme che contano è l’unico modo per durare nell’agone della nostra politicaccia. Buon viaggio, Cavaliere.
di Claudio Romiti