Guerra russo-ucraina: di male in peggio

venerdì 9 giugno 2023


Sta succedendo. La temuta escalation nella guerra russo-ucraina non è più un’ipotesi teorica ma una drammatica realtà. D’altro canto, la guerra è così. Una volta cominciata, non ha bisogno che qualche testa calda, da un remoto ufficio di una delle cancellerie coinvolte nel conflitto, decida a tavolino di innalzare il livello dello scontro bellico. L’escalation si alimenta da sola. La sua logica è barbarica, primitiva, elementare nella sua atroce crudezza: oggi tu colpisci un mio obiettivo sensibile, domani io distruggo un target che ti appartiene, magari più grande e più strategico per dimostrarti che sono più forte di te. È ragionando così che si finisce per ricorrere all’arma finale. Lo avrebbe fatto Adolf Hitler, se l’avesse avuta a disposizione per ribaltare le sorti della Guerra mondiale sul suolo europeo. L’hanno fatto gli americani a Hiroshima e Nagasaki, il 6 e il 9 agosto 1945, per chiudere i conti con il Giappone evitando che la guerra nel Pacifico si trascinasse per anni.

Oggi il boccino della fine del mondo è nelle mani degli uomini del Cremlino. Dopo che gli ucraini hanno dimostrato di poter colpire direttamente, o attraverso le azioni di sabotaggio e guerriglia delle milizie russe anti-Putin, il territorio della Federazione, per una bizzarra coincidenza – che la storia militare s’incarica di dimostrare che tale non è – esplode la diga di Nova Kakhovka sul fiume Dnpro, nelle vicinanze di Kherson. Si tratta di un’installazione che contiene 18 chilometri cubici di acqua. Secondo quanto riferiscono le autorità ucraine, alle ore 15 di ieri l’altro, 20 insediamenti e 2.612 case nei territori della riva destra del Dnipro erano stati allagati. È stato possibile evacuare solo 1.752 cittadini ucraini. Si contano in totale 29 centri abitati inondati e 600 chilometri di territorio alluvionato. Anche la città di Olešky, nel oblast’ di Kherson, è sommersa dalle acque.

Il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, ha fatto sapere che una chiazza di 150 tonnellate di petrolio è spinta dalla corrente verso il Mar Nero. I danni, finora rilevati, sono devastanti. Ancor più catastrofiche sono le previsioni su ciò che la rottura della diga potrà causare a distanza di giorni. Rischia di saltare il “corridoio del grano”, grazie al quale l’Ucraina è riuscita a tenere in piedi una delle poche attività economiche consentite in un Paese in guerra. Vi è il concreto pericolo che nelle prossime ore esploda un’epidemia provocata dalla mancanza d’acqua alle popolazioni colpite. La gente è senza cibo e non riceve cure mediche per dell’intensificarsi dei bombardamenti da parte dei russi. I morti accertati a causa dell’inondazione al momento sono cinque e 41 le persone ferite, ma il bilancio è destinato a salire.

La domanda ricorrente è: chi è stato? Le parti in conflitto si accusano a vicenda. Entrambe hanno argomenti a sostegno delle loro posizioni. Gli ucraini dicono che sia stata Mosca a ordinare il disastro economico-ambientale allo scopo di rendere inagibile il terreno della prossima controffensiva di Kiev volta alla riconquista dei territori occupati. I russi, viceversa, accusano gli ucraini di aver deliberatamente distrutto la diga che fornisce acqua alla penisola della Crimea. Da che parte stia la verità, francamente importa poco. Ciò che conta è che il livello dello scontro si è pericolosamente innalzato. Le attività di sabotaggio stanno ruotando intorno alla centrale nucleare di Zaporižžja. Che sia quest’ultima il prossimo obiettivo? L’Occidente è compatto nel sostenere l’Ucraina fino alla vittoria sull’occupante, ritenendo che solo con una sconfitta sul campo delle armate russe si possa cominciare a parlare di processo di pace. È difficile comprendere se i leader del mondo libero ci facciano o ci siano, come si sentirebbe dire negli angiporti che intersecano le eleganti strade capitoline. Davvero qualcuno pensa che una potenza che ha oltre 6mila testate nucleari nel proprio arsenale bellico sia disponibile a farsi sconfiggere sul campo di battaglia senza aver prima giocato il tutto per tutto?

Condividiamo totalmente la preoccupazione espressa, l’altro giorno, sul nostro giornale da Giancarlo Lehner riguardo alla folle idea secondo cui la pace sia raggiungibile soltanto con la sconfitta della Russia. Una sconfitta comporterebbe l’implosione della Federazione Russa, che già oggi non è quel monolite statuale che in Occidente molti pensano che sia. La Russia è un miscuglio di etnie, culture e interessi strategici ed economici che solo un potere forte e centralizzato, “imperiale”, riesce a tenere insieme. Qualora quel potere dovesse mostrare tutta la sua debolezza perdendo la sfida con l’Occidente, non riuscirebbe a trattenere la slavina rivoluzionaria che finirebbe per travolgerlo. Basta guardare a ciò che è accaduto in Jugoslavia dopo la fine del regime titino per comprendere di quali possibili scenari apocalittici si parli. Con una decisiva differenza: nei Balcani occidentali nessuno aveva in proprio un arsenale nucleare da impiegare.

Intanto, la diplomazia resta ferma al palo. Anche la lodevole iniziativa del Vaticano di tentare una mediazione tra le parti in conflitto non ha alcuna speranza di successo. Oramai è chiaro come il sole: è solo questione di tempo prima che accada l’irreparabile. I leader occidentali sembrano un po’troppo ottomisti nel prevedere che il game of chickenil gioco del pollo – possa concludersi positivamente. Tutti sono sicuri che Vladimir Putin sterzerà prima di finire con l’auto nel burrone dell’olocausto nucleare. Ma se non dovesse accadere? Se Putin decidesse di non sterzare all’ultimo istante?

Questa è la realtà, non il remake di Gioventù bruciata. Eppure, una speranza che l’orologio della fine del mondo si blocchi prima di segnare la fatidica ora X, esiste. Ce la offre il tempo. Stiamo per entrare nel secondo semestre del 2023. Ancora un po’ e comincerà il conto alla rovescia per l’elezione del prossimo presidente degli Stati Uniti d’America. Il 5 novembre 2024, gli americani saranno chiamati alle urne per scegliere il successore di Joe Biden o per confermarlo a un secondo mandato. Sarà, come sempre, il primo martedì di novembre. Ma che possa diventare una data da vergare nel libro della storia dell’umanità, al momento è solo un auspicio. Già, perché a questo punto non resta che sperare nell’inverarsi di due fattori decisivi per la fine del conflitto. Il primo, che la guerra in corso si cronicizzi. Cioè che vada per le lunghe senza che nessuno dei contendenti possa conseguire la vittoria. Il conflitto deve restare cristallizzato almeno fino a quel fatidico martedì del 2024. Il secondo, è che la sfida presidenziale venga vinta da un Repubblicano e che Joe Biden esca di scena definitivamente. Se la destra statunitense tornasse al potere un negoziato di pace con Mosca, su basi realistiche, diverrebbe un’opzione concreta.

Rebus sic stantibus, a noi, poveri mortali che subiamo le decisioni dei governanti anche quando non le condividiamo, non resta che trattenere il fiato. Certo, un’apnea lunga diciassette mesi è eccessiva anche per il fisico più allenato. Ma che possiamo fare di diverso, quando chi ci guida ha deciso di portare fino alle estreme conseguenze la prova di forza con il nemico? Non è che vogliamo fare i menagramo, ma è da un po’ che ci scorre davanti agli occhi la scena di un film, che proprio non ci lascia. Il film è “Caccia a Ottobre rosso”. La scena è quella del sommergibile mandato da Mosca per impedire con ogni mezzo al comandante Marko Ramius (Sean Connery) di consegnare agli Stati Uniti d’America, disertando, il sottomarino nucleare russo della classe Typhoon, “Ottobre rosso”. Il fotogramma è quello in cui il sottomarino inseguitore sta per esplodere, colpito da un suo stesso siluro sganciato per affondare “Ottobre rosso”. È quella frase, sbattuta in faccia dal primo ufficiale al comandante del sommergibile nell’imminenza dell’impatto col siluro, che continua a frullarci in testa senza darci tregua. Chissà perché quel “sei contento stronzo, ci hai ammazzati”, continua a ronzarci nella mente? Già, chissà perché.


di Cristofaro Sola