lunedì 22 maggio 2023
Questo Governo non sta solo affrontando i mille problemi degli “affari correnti” in un momento storico di inizio millennio drammaticamente segnato dallo choc energetico, dalla rivoluzione della rete, dalla necessità di nuove scelte di unità europea, dagli esiti di una pandemia mondiale, dalla fine dell’equilibrio bipolare, dalle crisi africane e dai pericolosissimi venti di guerra nell’Est. Ma anche e per la prima volta, con convinzione, dal problema dell’ammodernamento del nostro modello istituzionale, senza il quale tutti i nostri governi si sono sempre dimostrati scarsamente efficienti.
Molti osservatori fissano (e con buone ragioni) la loro attenzione sull’instabilità degli Esecutivi in Italia, dato che da noi un Governo dura mediamente solo poco più di un anno, rendendo così precaria e poco efficace la sua azione. È chiaro che un Governo dalla vita breve sarà più portato a provvedimenti di corto respiro, di immediata anche se limitata utilità, piuttosto che a porre mano a riforme più incisive e strutturali, ma a serio rischio di restare delle incompiute, a causa delle mutevoli, variegate e instabili alleanze parlamentari.
Negli anni abbiamo potuto vedere in effetti di tutto, incluse ardite costruzioni semantiche come i governi delle “convergenze parallele” o della “non sfiducia”, geometrie variabili di tutti i tipi a coprire le alleanze più spericolate, ma stabilità e coerenza interna di governo, poca o punta. La frase di James Freeman Clarke, che Alcide De Gasperi amava spesso ripetere – “un politico guarda alla prossime elezioni, uno statista alle prossime generazioni” – da noi ha dipinto una situazione dovuta, in gran parte, a uno stato di necessità, legato alla debolezza intrinseca del nostro sistema parlamentare. L’instabilità dei nostri governi, per la sua particolare evidenza, ha però reso meno avvertibile un altro problema e cioè che la debolezza degli Esecutivi, lungi dal rendere più forte il Parlamento, ne ha al contrario provocato la quasi totale inerzia come organo legislativo.
Sembra una contraddizione, ma non lo è. Il Parlamento come base unica della legittimità di ogni Governo e di tutti i suoi atti è stato invece proprio per questo di fatto espropriato di ogni potere reale di indirizzo e controllo, come di ogni iniziativa legislativa. Nelle democrazie parlamentari il Governo si regge e si legittima solo sulla fiducia delle camere e questo comporta che, molto spesso, un deputato di maggioranza non possa votare liberamente contro una legge, a cui pure sarebbe in coscienza contrario, perché questo potrebbe mettere a rischio la stabilità del Governo (e il contrario se è all’opposizione). Ciò comporta che la disciplina dei gruppi di partito diviene prioritaria, vanificando in gran parte la libertà dei rappresentanti del popolo e il ruolo stesso del Parlamento (Winston Churchill stesso lamentava di dover ammettere che un sistema puramente parlamentare poteva funzionare solo se c’era “the whip”, la frusta, a controllare i deputati). Non solo: in Italia i partiti, per meglio controllare i gruppi parlamentari, hanno interrotto ogni rapporto diretto tra elettori ed eletti, eliminando tanto il voto di preferenza (con cui l’elettore sceglieva il deputato) che il collegio uninominale (che rendeva centrale la figura del candidato) per creare una sorta di parlamento di nominati dalle segreterie nazionali, considerato come più obbediente alle loro esigenze.
Tutto questo è il portato di un parlamentarismo estremo che finisce per risolversi nella fine del Parlamento. Al contrario, in una Nazione in cui il capo dell’Esecutivo sia legittimato direttamente dal voto popolare, il Parlamento può approvare e disapprovare, concedere o negare, insomma legiferare ed esercitare un reale controllo, con ben maggiore libertà, perché il Governo è comunque sempre al riparo. Ed è questa la ragione per cui il Parlamento americano è quello che si trova ad assomigliare maggiormente all’idea originale di Parlamento e a funzionare davvero come tale. Se non l’unico, quello statunitense, è di sicuro però il più vero Parlamento rispetto a tutti quelli intorpiditi in una pura accettazione notarile degli atti dei governi. Negli Stati Uniti la separazione dei poteri, tra Esecutivo e Legislativo, è reale e questo fa sì che, molto spesso, il presidente debba discutere e concordare per davvero il sostegno a una legge con i gruppi parlamentari e perfino con ogni singolo deputato o senatore. Il che, se ci si pensa, rende davvero il Parlamento americano un luogo dove si discute e si decide.
I cambiamenti istituzionali, oltre alle rigide norme che li regolano, debbono però sempre essere preceduti da una maturazione politica che li renda possibili, oltre che augurabili. E, in questo senso, dall’instabilità dei governi, accoppiata alla non funzionalità del parlamento viene una sorta di suggerimento, una semplice ma forte indicazione, a considerare una evoluzione della nostra democrazia verso una Repubblica presidenziale, che io considero auspicabile per due ordini di motivi. Il primo ed evidente: rendere finalmente più stabile l’Esecutivo. Il secondo, meno evidente, ma forse persino più importante, è, come abbiamo visto, quello di restituire il suo ruolo al Parlamento.
In una Nazione in cui il capo dell’Esecutivo sia legittimato direttamente dal voto popolare, il Parlamento può approvare e disapprovare, insomma legiferare ed esercitare un reale controllo, con ben maggiore libertà, perché il Governo è comunque sempre al riparo ed è questa la ragione profonda di una riforma costituzionale in tal senso. Non è però essenziale che il capo dell’Esecutivo sia necessariamente un presidente della Repubblica eletto dal popolo, potrebbe anche essere il primo ministro, con un capo dello Stato di garanzia e simbolo dell’unità nazionale (con funzioni uguali, insomma, a quelle di un Re costituzionale) ma è necessario che sia comunque un premier eletto direttamente in elezioni generali, se si vuole un Esecutivo stabile e un Parlamento realmente sovrano.
Nell’immediato Dopoguerra, dopo vent’anni di ininterrotto Governo Mussolini, vi era un’enorme e acritica diffidenza verso ogni forma di Esecutivo forte o semplicemente troppo solido per cui, nel disegnare l’assetto costituzionale, si esagerò nel farlo dipendere completamente da ogni “sbalzo d’umore” parlamentare. All’epoca della costituente, Piero Calamandrei, inutilmente, fece notare che il sistema americano, con i suoi pesi e contrappesi, realizzava già un modello utilizzabile di stabilità e democrazia, da noi si volle invece dar vita a un parlamentarismo perfetto che però, come avrebbero dimostrato i decenni seguenti, sarebbe sfociato nel suo opposto e cioè in un Parlamento privato praticamente dei suoi poteri sulla formazione delle leggi per poter dare – senza peraltro riuscirci realmente – un minimo di stabilità ai governi.
Le leggi di iniziativa parlamentare, sfavorite da regolamenti delle Camere tutti tesi ad assicurare praticamente solo l’azione governativa, sono ormai veramente poche e l’attività parlamentare si limita quasi (e anche lì con poco successo) agli emendamenti, ma senza che questo abbia dato stabilità ai governi: ben 67 nei primi 74 anni di Repubblica. L’elezione diretta del capo dell’Esecutivo, specie se accoppiata a una riforma elettorale non semplicemente maggioritaria (un sistema proporzionale con premio di maggioranza, specie se senza preferenze, ha qualcosa di autoritario in sé e aumenta inoltre il peso della partitocrazia) ma basata sui collegi uninominali – come nel Regno Unito, nell’Italia giolittiana o nelle proposte del referendum Segni – risolverebbe invece davvero il problema.
Un problema che non possiamo non porci, se solo pensiamo alle difficoltà a confrontarci, avendo rappresentanti sempre diversi, con Paesi che hanno invece governi stabili (specie in Europa) o alle difficoltà che hanno ministri che cessano dall’incarico prima ancora di finire il necessario apprendistato. In materia di elezioni parlamentari, poi, la mancanza di ogni possibilità per l’elettore di scegliere l’eletto con l’attuale legge non comporta solo la mancanza di ogni rapporto diretto di rappresentanza, ma anche il rischio di selezionare le candidature principalmente sulla base della fedeltà, vera o presunta, alle segreterie dei partiti mentre, in un collegio uninominale, le qualità personali del candidato diventano importanti, perché possono fare la differenza tra la vittoria o la sconfitta.
Un capo dell’Esecutivo eletto direttamente dal popolo e un Parlamento eletto in collegi uninominali: così riformerei l’assetto istituzionale del nostro Paese e credo che il centrodestra dovrebbe intestarsene il progetto, avendo in mente non solo il presente, ma anche lo sviluppo futuro e il ruolo in Europa della Nazione. Tornando alla frase di De Gasperi sulle prossime elezioni e le prossime generazioni, fermo restando – con un po’ di necessario spirito pratico – che le elezioni è meglio comunque vincerle, individuare una strada per modernizzare il Paese, con un occhio allo sviluppo e al rafforzamento della sua democrazia (oltre che alla difesa, ferma e costante, della libertà di ognuno), è in ogni caso cosa giusta e decorosa e vale la pena di rifletterci, anche se siamo sempre distratti dalle cure pressanti del presente.
E oggi che, per la prima volta in tanti anni, la destra politica di tutte le sfumature governa insieme al centro è il momento di porsi seriamente il problema, anche perché è l’ambiente attorno a noi che sta drammaticamente cambiando, nel mondo e nella nostra Italia. Un’Italia che potrebbe fare molto per sé e per l’Europa. Tra l’altro, l’inizio di un nuovo secolo è un naturale periodo di bilanci anche per le nazioni e oggi siamo al via di un secolo che segna un Millennio, un periodo che sembra enorme rispetto alla nostra vita, ma che non lo è per la nostra Nazione. Perché in realtà siamo, a riflettere storicamente, la più antica nazione d’Europa. Fin da quando cominciammo a contare gli anni secondo il calendario cristiano, l’Italia già esisteva come provincia, come realtà culturale e come coscienza di sé. La cultura latina era condivisa in tutta la penisola e anzi l'intera Italia, con Catullo che nasceva a Verona, Plinio a Como, Virgilio a Mantova, Tito Livio a Padova, era ormai tutta protagonista della cultura Latina, tanto che Virgilio dedicava all’Italia un’ode nelle Georgiche e nell'Eneide chiamava Italia il luogo in cui i Troiani finalmente sbarcavano. Nazione lo siamo insomma da sempre e da sempre, di fatto, ai primi posti della civilizzazione mondiale.
È difficile infatti trovare una civilizzazione che sia durata così continuativamente sulla scena mondiale come quella italiana, dal diritto e dalla poesia della Roma Repubblicana all’urbanistica e all’architettura della Roma Imperiale, dalle cattedrali del Medioevo alla nuova cultura del Rinascimento, dal metodo sperimentale di Galileo che segna la nascita della scienza moderna, alla scoperta dell’America che segna la nascita dell’era moderna e che non a caso fu ripresa nel messaggio del premio Nobel Arthur Compton, quando, grazie a Enrico Fermi e alla sua pila atomica, si aprì l’epoca nucleare: “Il navigatore italiano è giunto nel Nuovo Mondo”.
Faccio questo orgoglioso bilancio del mio Paese, all’inizio del nuovo Millennio, per un preciso motivo, per richiamarne le energie, scientifiche, culturali e morali, al servizio di una situazione mondiale che appare dal futuro drammaticamente incerto. Noi Italiani non sempre ce ne rendiamo conto, ma su scala storica stiamo vivendo un periodo di tranquillità, di benessere e anche di stabilità reale (nonostante l’instabilità governativa) eccezionale in rapporto al resto del mondo e anche in rapporto a quei non molti Paesi che sono più ricchi di noi. Per effetto del progresso economico, certo, ma anche di una antica tradizione, di una profonda solidarietà nazionale e soprattutto di una certa virtù di vivere, grazie alla quale pure la povertà è vissuta in maniera meno dura e più dignitosa da noi (da ricco potrei vivere bene, a parte gli affetti personali, in qualunque parte del mondo occidentale, ma da povero, anche col nostro pessimo Stato, senza dubbio sceglierei l’Italia). Ma nel resto del mondo non è affatto così e, soprattutto, quello che preoccupa è la rapida tendenza al peggio che è dato vedere. È come se la Terra si fosse ripiegata su se stessa, con gran parte del terzo mondo che si sbrana e che sembra solo preoccupata di aumentare un po’ i consumi e di ripetere gli stessi errori da noi già fatti, mentre le grandi nazioni ricche di potenzialità hanno smesso di progettare il futuro.
Come la Russia del ripiegamento economico e dell’avventurismo, che, insieme alla tragica e sanguinosa prassi dittatoriale del comunismo, sembra aver perso però anche la religione laica del progresso, come gli Stati Uniti, che, a parte i due grandi sprazzi delle presidenze di Kennedy e Reagan, sono adagiati su di una mediocrità aggressiva che sembra figlia della “noluntas” verde-radical chic. Come L’Europa, che continua a non essere tale e, perciò stesso, a non poter sostituire e neanche affiancare il motore americano, mentre la Cina sembra coltivare essenzialmente solo un classico e un po’ cupo sogno imperiale.
Complessivamente, insomma, si delinea lo scenario di un mondo diviso ma statico, senza nessuna spinta nemmeno lontanamente paragonabile a quella sprigionatasi nel Rinascimento o nell’Ottocento, ma soprattutto nemmeno lontanamente paragonabile a quella che oggi sarebbe necessaria. Perché non ci sarebbe nulla di troppo negativo in questo periodo che, ribadisco, contrariamente a quello che molti credono è di ripiegamento, se non fosse che l’essere sul punto di raggiungere i limiti dello sviluppo sul nostro pianeta, introduce un rischio gravissimo di crollo esplosivo, definibile, a mio avviso, da un’equazione del tipo: mancato sviluppo=catastrofe. E allora la vita ragionevolmente piacevole, che in Italia riusciamo ancora a fare, potrebbe non durare a lungo, in un’epoca in cui non è più possibile ignorare i problemi mondiali, perché si finisce comunque per ritrovarseli addosso.
E allora è alla lunga tradizione di capacità storico-diplomatica di una nazione come la nostra che bisogna attingere, per rimettere in moto prima il processo di integrazione europea, poi quello di solidarietà atlantico-occidentale e infine quello di ricostruzione continentale comprendente, non appena possibile, anche la Russia, con l’obiettivo di un gigantesco sforzo euro-americano per rimettere in moto ricerca scientifica e sviluppo tecnologico.
E questo a favore di tutto il Mondo. L’Italia, che è stata tra i primi a raggiungere la consapevolezza dell’impossibilità di risolvere problemi globali sulla base di una spinta puramente nazionale e che proprio per questo è da sempre la nazione più europeista, deve porre le risorse di un’antichissima scuola diplomatica ( e il pensiero corre a Camillo Benso conte di Cavour) a cui non è certo estranea la tradizione del papato, al servizio di una nuova grande iniziativa nel solco della tradizione e dello spirito occidentale.
I problemi interni del nostro Paese sono ben poca cosa rispetto a quelli del mondo. E non solo se riferiti al mondo in generale, ma proprio anche agli effetti diretti che producono sull’Italia, visto che i cambiamenti che importiamo per i sommovimenti mondiali (dall’inflazione all’effetto serra, dal ciclo economico all’immigrazione selvaggia, dalle ragioni di scambio alle tecnologie) tendono a diventare sempre più importanti rispetto a quelli di origine interna. Insomma, stiamo passando da un lunghissimo periodo storico in cui, molto spesso, la politica estera era solo un prolungamento di quella interna, a un nuovo periodo in cui è quella interna ad essere determinata da quella estera.
Se non riusciremo a risvegliare l’antico spirito pionieristico occidentale in una, massimo due, generazioni, la partita per il mondo sarà perduta e con essa anche quella per il nostro Paese. Ho in testa qualcosa di preciso dicendo questo, qualcosa che deriva dalla constatazione che è impossibile, senza perdere insieme benessere, libertà e pace, accettare i limiti dello sviluppo. Intendendo con questo che è mia opinione che, senza la pianificazione urgente (anche psicologica) di una prima ondata di colonizzazione dell’Universo più vicino – laddove quello spazio che qui ci manca c’è – l’umanità entro questo o il prossimo secolo, conoscerà una discontinuità (catastrofica) prima di riprendere il cammino, ma da un livello molto più basso. L’espansione non solo come scelta, insomma, ma come vera necessità.
L’orgoglio che provo e che ho sempre provato (e che prima di me provava mio padre) di essere italiano, mi spinge a credere che l’Italia saprà e potrà risvegliare la scintilla di un nuovo Rinascimento scientifico ed umanistico che apra la strada all’esplorazione dello Spazio vicino, allo stesso modo che fu nei nostri monasteri e nelle nostre accademie che si determinò il primo. Ad ogni modo, che sia l’America a riprendere quello spirito di avventura che oggi sembra appannato, l’Europa o chiunque altro, noi dovremo dare il nostro contributo, meglio se tra i primi. E non ci tragga in inganno la sproporzione numerica, anche Firenze, anche Venezia erano piccola cosa all’alba del Rinascimento. Eppure, dalla letteratura, alla scienza, alla finanza, cambiarono il mondo.
La possibilità di comprensione e di guida dei nuovi avvenimenti, se ci sarà, non nascerà da grandi masse o da moltitudini vocianti, ma dalle università e dai chiostri. Oggi che l’Italia, pur possedendo le chiavi di lettura di ogni singolo progresso scientifico, non è percepita da nessuna parte del mondo come potenza aggressiva o egemone, la possibilità concreta di influenzare l’atteggiamento delle altre nazioni è notevole, purché si sappia cosa volere, dove andare e come. Potrebbe essere un altro Millennio di fondamentale presenza della cultura e dello spirito italiano.
La Spagna della regina Isabella sappiamo dov’è oggi, a Bruxelles, a Mosca, a Pechino e, soprattutto, al di là dell’Atlantico, ci servono però altri “navigatori italiani” per noi e per tutti gli altri.
All’interno del nostro Paese, i principi del manifesto della libertà della Destra Liberale Italiana trovano, nella realtà di inizio secolo, uno dei luoghi che maggiormente necessitano di una rivoluzione liberale e di una politica che sia conseguente. La riscoperta di libertà e tradizione è necessaria quanto mai in Italia, per procedere verso un futuro che sia umano, di progresso e iscritto in un progetto comune. L’economia sociale di mercato aggiornata dall’ esperienza Reaganiana, la diffusione della proprietà privata, la riaffermazione degli interessi nazionali, lo spirito illuminista e risorgimentale, la cultura liberale, l’assunzione consapevole di tutta la storia italiana (dalla tradizione monarchica al sentimento cattolico), l’ottimismo nel futuro, la visione occidentale, l’Europa, sono tutti tasselli che trovano armonico posto nella visione di insieme di uno sviluppo di società, coerente con la storia e compatibile con le necessità e l'ambiente, che proponiamo all’Italia.
E allora in Italia le forze liberali del centrodestra devono riconoscersi per quello che sono, nei fatti, nelle aspettative e nel solco della grande tradizione della Destra Storica: il movimento italiano per la Libertà e la Nazione. Libertà e Nazione, perché è tradizionale del centrodestra il riconoscimento del valore della libertà della persona e, contemporaneamente, del suo radicamento in una comunità che è quella nazionale.
E quando dico Nazione penso anche all’Europa, se saprà finalmente essere Nazione. Libertà politica ed economica, perché la nostra classica vocazione di difesa del cittadino, oggi si realizza solo riducendo lo stato assistenziale, quel vero e proprio “Stato asociale”, che pesa come una cappa sull’economia e che è la causa prima della crisi e della disoccupazione.
“Credevamo che lo Stato potesse risolvere i nostri problemi, ora sappiamo che era proprio lo Stato il nostro problema” diceva Ronald Reagan. E diceva bene. La solidarietà sociale, oggi, o è liberale o non è tale, quasi allo stesso modo che la difesa nazionale – per esserlo veramente – non può non essere europea, così come la lotta al capitalismo massificante, se non è condotta in nome del liberalismo economico senza nessuna concessione allo statalismo, conduce inevitabilmente all’equivoco di un terzomondismo antioccidentale e pauperistico. E allora occorre innalzare la bandiera della libertà del cittadino contro gli abusi dello Stato imprenditore, dello Stato gabelliere, dello Stato concussore. Questo Stato-Moloch, che è stato creato proprio dalle forze e dagli interessi che si raggruppano oggi dietro lo scudo dei partiti che si richiamano all’Internazionale socialista.
E inoltre il centrodestra deve proporre il federalismo vero, quello sulla base più ridotta possibile (comunale, provinciale e talvolta regionale) quello che davvero permette al cittadino di controllare democraticamente la conduzione della cosa pubblica, quello che, oltre a realizzare il precetto di Hamilton (il federalismo regge se il numero di soggetti federati è alto e nessuno di essi ha una forza comparabile all’unione complessiva) corrisponde davvero alle esigenze di una Nazione che storicamente ed economicamente è stata, ed è il Paese, delle cento città e non certo delle tre macroregioni.
Il federalismo deve essere soprattutto una pratica attuazione del principio di sussidiarietà, che sancisce come una qualsiasi cosa vada fatta al livello più basso possibile. Lo Stato, insomma, non faccia ciò che può essere fatto dalle regioni, le Regioni non facciano quello che possono fare le Province e soprattutto nessun organo pubblico faccia ciò che meglio possono fare i privati cittadini. È questa la base di un centrodestra chiaro, patriottico ed europeo, su cui chiamare a raccolta i cittadini, organizzarli e indicar loro la strada del recupero della libertà e della tradizione nazionale.
È una linea occidentale, quella che proponiamo, ma tutta dentro la tradizione italiana, una linea di Destra Storica che comincia con Cavour e Sella, continua con Mosca e Pareto, Salandra e Giolitti, passa per Einaudi e D’Annunzio, fino a toccare De Gasperi e Croce, Sogno e Don Sturzo, Malagodi e Pella, Berlusconi con Tatarella e Fini e oggi Giorgetti e Molinari, Tajani e Gasparri, Nordio e Urso e, soprattutto, il primo ministro Giorgia Meloni, che sembra al suo esordio riuscire a porsi come erede di quella grande tradizione.
Una linea sottile ma che, quando ha prevalso, ha fatto la fortuna d’Italia. È una linea che riconosce il mercato come modo naturale di produrre e che crede nella libertà economica, una linea che porta alle privatizzazioni, ma sempre tenendo in conto la giustizia e l’interesse nazionale, senza svendite a multinazionali di Paesi che non ammettano la reciprocità o ci escludano dalle grandi concertazioni. È una linea rigorosamente garantista, perché la democrazia non è una parola e una giustizia democratica non è tale, se i diritti del cittadino vengono calpestati in nome di un giustizialismo che faccia di giudici intoccabili dei piccoli Torquemada onnipotenti.
È una linea che fa della separazione totale delle carriere di pubblici ministeri e giudici – per avere un giudice imparziale tra accusa e difesa – uno dei punti qualificanti, come pure della abolizione generale del carcere preventivo (con le sole eccezioni dei reati di omicidio volontario e partecipazione organica a banda armata o mafiosa, per il danno irreversibile che la eventuale reiterazione di tali reati comporta) per il rispetto assoluto del principio nessuna pena senza processo.
È una linea che ci vuole in Europa da Italiani orgogliosi di esserlo, condizione necessaria per essere veramente europei. È l’unica linea per costruire il futuro, un futuro in cui la rivoluzione tecnologica ci dischiuderà insieme enormi possibilità e rischi immensi e uniche guide saranno la libertà e la ragione. Gli uomini di ispirazione liberal-democratica e nazionale dovranno dar vita ad un vero e proprio Patto per la Libertà, in grado di dare al Paese una sicura e democratica alternativa, sia al costume corruttore della tarda Prima Repubblica, che al conformismo burocratico del raggruppamento delle sinistre socialiste e, soprattutto, alla inaccettabile deriva contro i diritti dei cittadini.
Quando si pensa alla estraneità, se non all’ostilità, con cui decine e forse centinaia di milioni di cittadini guardano allo stato in tutto il Mondo, forse bisognerebbe considerare che ciò è dovuto anche al fatto che si vanno accorgendo di come, nella quasi totale indifferenza politica (e con l’interessato consenso di troppi amministratori ed urbanisti) si sta lentamente abolendo la proprietà privata. Prendiamo pure il caso italiano (ma la tendenza è generale). Milioni di italiani stanno scoprendo solo ora che sono stati, negli ultimi quarant’anni, espropriati del sacrosanto diritto di fare quello che vogliono in casa loro a profitto dei piccoli rappresentanti locali dei partiti che, sotto le insegne di pubblici amministratori, si sono arrogati pian piano il diritto di decidere in casa altrui, di regolare minuziosamente la vita di tutti i cittadini.
L’abolizione del diritto locale di esproprio, da riservare unicamente al potere centrale proprio per dargli il carattere di assoluta eccezionalità, la libertà di modificare (con la ovvia certificazione di un tecnico abilitato) a piacere l’interno della propria abitazione e il diritto ad una edificabilità minima garantita per superficie posseduta, sono solo alcune delle necessità prioritarie, ma tra quelle qualificanti. Sui nuovi temi centrale dovrà poi essere la massima attenzione sul preoccupante dilagare della “veloce stupidità artificiale” (altro che intelligenza artificiale) che sta affidando le nostre vite a degli algoritmi numerici che ricordano sinistramente le mitragliatrici automatiche sul muro di Berlino.
È una linea complessa quella che proponiamo al centrodestra, è una linea di modernizzazione delle istituzioni e di intransigente difesa della libertà della persona, è una linea che considera la necessaria riproposizione del sistema elettorale a doppio turno di collegio un indicazione strategica, con il primo per selezionare i due partiti più forti e il loro candidato (con il sistema della preferenza unica) e il secondo per decidere tra i due il vincitore nei vari collegi uninominali, che coincideranno completamente in numero con i parlamentari, come il modo migliore per rispettare la volontà popolare e arrivare ad una democratizzazione interna dei partiti (finora arbitri assoluti e incontrollati) che è oggi di assoluta necessità. L’elezione diretta del capo del Governo (con un Capo di Stato di garanzia), l’abolizione del quorum e la possibilità di referendum anche propositivi sono poi proposte per l’ammodernamento e soprtatutto la democratizzazione dello Stato.
È una linea di difesa del cittadino dallo statalismo e dal partitismo, che punta a vere privatizzazioni e ad una drastica diminuzione delle imposte (tanto in peso che in numero), all’abolizione di un finanziamento pubblico dei partiti che si risolve solo in una tassa coercitiva, in favore invece della possibilità – volontaria – di finanziare il proprio partito con la dichiarazione dei redditi attraverso lo stesso sistema attuato per le religioni.
È una linea che vede nel “Polo della Libertà” una scelta strategica e nel “Patto della Libertà” un programma da attuare. È la linea della Nazione robusta data “da uno Stato debole e da una Società forte” che dobbiamo seguire, l’esatto contrario delle sinistre e di tutti gli statalismi storici, come ha dimostrato l’America vincendo lo scontro con l’Unione Sovietica.
Un tale centrodestra potrebbe, con il tempo, avere una forza d’attrazione anche verso i piccoli partiti più moderati del centrosinistra, nel caso ci fosse ancora qualcuno tra loro non completamente convertito al socialismo burocratico. Se il Polo è la nostra strategia interna, una federazione dei partiti di centrodestra di tutto il mondo occidentale deve essere la nostra strategia in politica estera. L’Europa anzitutto, rafforzando l'unione con quei partiti, come i Gollisti, i Conservatori, la Cdu-Csu o l’Alianza Popular, che più ci sono simili e non solo rafforzando i legami con loro attraverso il Ppe, ma anche stringendo insieme a loro rapporti con tutti quei partiti (come la destra francese, quella israeliana, i liberal-democratici Giapponesi o il Partito Repubblicano Usa) che pure sono a noi assai vicini e possono con noi dar vita ad una Internazionale della Libertà.
È una grande Internazionale per la Libertà, federazione mondiale di partiti patriottici e liberal-nazionali, che dalla realtà stessa naturalmente sorge e si propone. Una Internazionale come unica strada che possiamo intravvedere per la salvaguardia, nel mondo, di quei valori occidentali che sono alla base del nostro impegno politico.
È uno sforzo duro, prolungato e tenace, quello che attende la destra e il centro-destra italiano di oggi, uno sforzo di intelligenza degli avvenimenti, oltre che di azione politica. È un tentativo di evidenziare le ragioni profonde di unione anzitutto nel Polo e poi all’esterno, nel Mondo.
Cara Giorgia, ci conosciamo bene, anche se forse non tanto quanto avremmo voluto, ma a sufficienza perché io possa dire che condivido la speranza di tutta la Nazione che il tuo Governo di riscatto italiano abbia successo e non solo per noi, ma anche per coloro che, attardati nei falsi disvalori di una sinistra irrimediabilmente invecchiata, (che si adagia ormai solo nelle sofisticazioni gender) non lo comprendono.
Credo davvero che ci riuscirai e che con te tutti ci riusciremo e il sogno di riscatto del Nostro Paese delle destre italiane avrà successo. Ci riusciremo perché rappresentiamo dei valori profondi che non possono non avere adeguata rappresentanza. E perché più dei nostri avversari possiamo contribuire a costruire il Futuro. Tu tieni chiara la rotta. Certo, col lavoro duro e preciso di tutti i giorni. Ma anche con il richiamo costante ai simboli della nostra storia millenaria (tra cui ti ricordo l’esigenza morale di far tornare festa nazionale piena il 4 Novembre). Sì, ci riusciremo. Siamo obbligati a riuscire, perché non abbiamo alternativa. Noi siamo qui, tutti, nella destra democratica, Nazionale e Liberale, nella Lega, in Forza Italia, nel Polo e nella Casa delle Libertà. Perché quei valori non ci permettono di essere da nessuna altra parte.
di Giuseppe Basini