La stupidità dell’Intelligenza artificiale

sabato 13 maggio 2023


Si dice “Intelligenza artificiale” e dovrebbe dirsi “stupidità artificiale”. Infatti, ben oltre l’enfasi retorica con cui molti mezzi di informazione inneggiano alle macchine “intelligenti” che ci renderanno facile la vita e al diffondersi della digitalizzazione quale strumento di connessione universale, bisogna intendere come, di intelligenza, nei computer – per quanto sofisticati e potenti – non vi sia traccia alcuna.

Va da sé che tali macchine, in grado di memorizzare una quantità pressocché sterminata di dati di ogni genere, possono anche essere adoperate per ragioni dominative, come per esempio violare la riservatezza di ciascuno di noi, oggi fatalmente messa in grave pericolo proprio dall’uso spregiudicato delle banche dati.

Ma in questa sede, intendo chiarire perché a regnare sovranamente in queste macchine sia la più genuina stupidità.

Possiamo in prima battuta rilevare – usando termini kantiani – che mentre ogni computer usa il giudizio determinante, nessuno di essi potrà mai accedere al giudizio riflettente.

Nella prima forma di conoscenza, si tratta di partire da concetti generali per giungere poi alla conoscenza del particolare, secondo il procedere tipico del computer al quale vengono forniti dai programmatori regole generali in grande quantità da adattare ai casi particolari.

È questa la modalità propria del sapere delle scienze empiriche, campo di conoscenza dell’intelletto. Si pensi alla medicina, la cui problematiche diagnostiche possono essere efficacemente affrontate e risolte da un computer al quale siano stati preventivamente forniti i concetti generali della patologia medica e chirurgica, da adattare al caso concreto da esaminare. Ovviamente, lascio fra parentesi il problema di enorme portata relativo al ruolo personale che il medico è chiamato a svolgere, dal momento che la macchina ne depotenzia la vocazione diagnostica da praticare attraverso l’esame diretto del paziente, senza alcuna mediazione preliminare: anche perché il vero problema del medico – oggi dimenticato – è prendersi cura del malato e non debellare la malattia.

Nella seconda forma di conoscenza – quella del giudizio riflettente – è il particolare che invece viene messo a disposizione e da questo occorre risalire all’universale, secondo un movimento opposto al precedente.

È questa la modalità propria del sapere delle scienze non empiriche, ma teoretiche (estetica, etica, diritto, poetica ecc.), campo di conoscenza della ragione.

Si pensi alla amministrazione della giustizia, ove l’utilizzo del computer appare impossibile, dal momento che è impossibile fornirgli tutti i dati concreti immaginabili, tenendo conto che non si può escludere si realizzi di fatto anche il “non immaginabile”. Per questo, nessun computer potrà mai sostituirsi al giudice: perché nel primo sono state immesse soltanto le regole, quelle di cui sono fatti i codici, ma non le eccezioni, costitutive invece della coscienza del secondo. Il computer potrà riempirsi – in misura ben maggiore del giudice – di milioni di regole, ma impazzirà di fronte ad una sola, imprevedibile eccezione. E d’altra parte, le eccezioni non sono prevedibili, altrimenti non sarebbero eccezioni, e per questo non potranno mai essere tutte immesse in un computer. Inoltre, nessun computer potrà mai comprendere e spiegare perché il “Sole nascente” di Monet sia bello o perché un verso di Rilke ci faccia capire della nostra esistenza meglio e di più di un trattato di psicologia.

In altre parole, il computer possiede, per dir così, attraverso un algoritmo, la grammatica della frase – cioè la sequenza logica dei termini che la costituiscono – ma ignora del tutto la semantica – vale a dire il suo senso, che poi è l’unica cosa che davvero conti.

Ecco perché anche il computer più potente del mondo (capace per esempio di risolvere correttamente e in un baleno equazioni a cento incognite), non potrà mai transitare dalla dimensione quantitativa a quella qualitativa, che sarebbe la sola cosa da fare per parlare in modo credibile di intelligenza artificiale, ma che nessuno potrà mai garantire, neppure fra mille anni.

Perciò il computer è per definizione stupido: perché incapace in linea di principio di cogliere il senso della realtà; di comprendere ciò che fa o che non fa; di conoscere il mondo e di auto-conoscersi. Esso potrà forse simulare gli effetti del cervello umano, ma in nessun caso potrà far proprie le ragioni della mente: l’abisso fra quello e questa rimane in linea di principio incolmabile.

Fa perciò solo sorridere leggere che un computer può scrivere poesie. Certo, potrà emettere sequenze di termini che siano già stati immessi dal programmatore, anche poeticamente evocativi, ma senza sapere ciò che fa: non sarà mai allievo della Musa.

Come un pappagallo che ripete continuamente ciò che gli è stato dato modo di sentire. Questo dunque forse il modo più acconcio di definire il computer: un raffinato (e costoso) pappagallo artificiale.

(*) Tratto dal quotidiano La Sicilia


di Vincenzo Vitale