sabato 29 aprile 2023
Ripubblichiamo un editoriale a firma di Vincenzo Vitale scritto ben 11 anni fa che già all’epoca mostrava tutte le falle sulla presunta “trattativa” Stato-mafia.
È comprensibile che il capo dello Stato si sia assai addolorato ed arrabbiato per la morte del dottor Loris D’Ambrosio, attaccato ultimamente da varie parti: e ciò non mi meraviglia. È comprensibile che il mondo politico quasi al completo (con l’eccezione di Antonio Di Pietro) abbia fatto sentire la sua voce in un coro di disapprovazione e di critiche a coloro che avevano coinvolto D’Ambrosio ed in particolare la Procura di Palermo. Tutto ciò che è accaduto in queste ultime settimane sorprende invece in quanto non si comprende bene quale sia davvero l’ipotesi di reato su cui sta lavorando la magistratura palermitana. Si dice e si ripete da parte della stampa che si ipotizza un patto fra alcuni esponenti istituzionali e la mafia, stretto nel corso dei primi anni Novanta e che avrebbe dovuto porre fine ai gravi attentati che la mafia aveva organizzato mesi prima a carico del patrimonio artistico nazionale.
Il patto sarebbe consistito nel far cessare tali insostenibili attentati in cambio della revoca di alcune decine di provvedimenti ministeriali con cui era stato applicato l’articolo 41 bis – vale a dire la carcerazione speciale in regime di isolamento – a numerosi condannati per reati di mafia. Allo stato non si sa se esistano prove in tal senso. È noto invece che sono incappati in varie imputazioni l’ex ministro Nicola Mancino, l’ex ministro Giovanni Conso (un vero gentiluomo oggi novantenne) e diversi alti ufficiali dei carabinieri. E sta bene. Tuttavia, resta da capire di quale reato si stia parlando, configurato come e consumato da chi. Ipotizziamo, infatti, che davvero alcuni ministri, di concerto con l’intero Governo, abbiano ritenuto che, revocando quei provvedimenti, si potesse sperare una reazione positiva delle organizzazioni mafiose criminali, un allentamento della tensione sociale, il venir meno o il ridursi degli attentati. E allora? Dov’è il reato? Quale sarebbe il fatto illecito? Ma vi è di più, perché bisogna porsi un’ulteriore domanda che suona: perché se un pubblico ministero avesse, in quello stesso periodo, stretto un patto con uno o più pentiti, promettendo in cambio benefici di vario genere (come usava i quegli anni), allora, costui va lodato perché si stava impegnando in una strenua lotta contro la criminalità?
Mentre, invece, se un patto di tal genere fosse stato concluso ad alto livello politico da parte dell’esecutivo, allora si è in presenza di un reato? Si vorrebbe sapere quale mai sia la differenza fra le due ipotesi. Forse che ciò che è lecito ad un pubblico ministero non può esserlo per il Governo? E perché mai? Se invece le ipotesi di reato fossero diverse, bisogna capire ciò di cui si parla. La stampa ha accennato al reato di attentato agli organi costituzionali dello Stato. Ma anche qui si tratta di capire in che senso. Quali organi ne sarebbero stati destinatari? Chi l’avrebbe messo in opera e come tale attentato sarebbe stato consumato?
Come si vede, la confusione regna sovrana perché non è possibile rispondere a tali domande che, pure, sono assai semplici, per quanto essenziali. Non resta che attendere la conclusione delle indagini per cercare di capire ciò che oggi davvero non si capisce. A proposito. Avrei amato se l’identico sdegno e la stessa rabbia il capo dello Stato le avesse mostrate in altre occasioni in cui persone innocenti, travolte da scandali in cui non c’entravano nulla, vi hanno perso la vita. È chiedere troppo?
di Vincenzo Vitale