giovedì 27 aprile 2023
Il 25 Aprile del 1945 la mia Patria fu liberata dall’esercito nazista e dal regime fascista che gliel’aveva asservita. Il Nord dell’Italia, occupato dai tedeschi e dai repubblichini, fu ricongiunto al resto del Paese, che tornò ad essere unito, libero e indipendente, come lo vollero e costruirono gli artefici del Risorgimento.
L’anno della Liberazione nazionale fu anche l’anno della liberazione personale di mio padre Guido, che tornò a casa nell’agosto del 1945. Il 9 settembre 1943 (il giorno dopo il fatidico 8 Settembre!), mentre come ufficiale medico dirigeva l’ospedale da campo di Bencovazzo, vicino Zara (oggi Croazia), fu catturato dai nazisti e deportato nel lager di Meppen, nella Germania nordoccidentale al confine con l’Olanda, non nell’oflag per ufficiali ma nello straflager, “campo di punizione” per prigionieri protagonisti di tentativi di fuga o di atti di insubordinazione. Fu uno delle migliaia e migliaia di “Internati Militari Italiani” che preferirono sopportare le terribili condizioni di vita della prigionia anziché tornare in Italia a servire nell’esercito di Salò. Fu uno dei “Volontari della Libertà”, i patrioti della Resistenza senz’armi (secondo gli storici Avagliano e Palmieri) ovvero dell’Altra Resistenza, secondo Alessandro Natta, segretario del Pci, che così intitolò il libro che invano cercò di pubblicare nel 1954 con gli Editori Riuniti, riuscendoci nel 1997 con Einaudi! Alessandro Natta, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, scrive che iniziò da subito a rivendicare “il valore della non collaborazione, della resistenza a cedimenti e compromessi dei soldati e degli ufficiali prigionieri in Germania come una realtà che era legittimamente parte della lotta di liberazione. Sia chiaro: la tesi che nel 1954 mi sforzavo di provare – che la prigionia nei lager tedeschi era parte integrante della resistenza antifascista – mi sembra oggi generalmente condivisa”. Ma Natta sbagliava. La sua tesi non era condivisa, né nel 1954, né nel 1997. E neppure ai nostri tempi. Gli Imi sono ancora “generalmente” fantasmi per gl’Italiani.
Nacqui nel luglio del 1946. Sono coevo della Repubblica. I miei genitori parlarono poco della guerra, delle tribolazioni familiari, delle distruzioni materiali. Mio padre accennò, raramente, ai lunghi mesi da deportato, alla fame patita quando io facevo lo schizzinoso per il grasso della bistecca. “Sognavo quel grasso”, sospirava. Una volta, sempre a tavola, ricordò il premio spettante a chi accettava di combattere per Salò: duecentocinquanta grammi di pane bianco e un wurstel.
Perché mi attardo su episodi così personali? Perché non riguardano me, bensì un modo di percepire la Festa della Liberazione, che nel corso degli ultimi lustri hanno cercato di trasformare da festa partigiana a festa nazionale, senz’esserci ancora riusciti. Il monopolio “culturale” comunista sulla Resistenza è la causa principale dell’incompiuta trasformazione, e ciò appartiene alla nostra storia politica e ideologica. Poi c’è la grande storia europea e mondiale. La resistenza antinazifascista di marca angloamericana rinnegava la rivoluzione europea di marca moscovita: “Basti considerare il fondamentale contrasto di concezione sul rapporto tra guerra e rivoluzione: secondo la concezione russa, il comunismo deve vincere la guerra per lanciare la rivoluzione in Europa; secondo la concezione inglese, il Regno Unito deve organizzare e dirigere la rivoluzione europea per vincere la guerra” (Gazzetta Ticinese, 12 agosto 1943). Questo fondamentale contrasto ho continuato a percepirlo negli anni, a mano a mano che crescevo appassionandomi alla politica e alla storia. Che diritto, mi chiedevo, che diritto hanno gli eredi della concezione russa di salire in cattedra e impartire lezioni di democrazia e libertà agli antifascisti di concezione inglese? Il loro antifascismo è forse qualitativamente superiore al nostro? Al mio?
Ho sempre nutrito ammirazione per i veri partigiani, per i combattenti in armi, per i resistenti nelle carceri e nelle prigioni, per gli eroi torturati che non tradirono. Parlando in generale, ho visto nell’antifascismo “attivo” e “passivo” il volto politico di uomini generosi, che insorgono non solo per salvarsi ma anche per compassione degli altri. E considerando e apprezzando al massimo la loro abnegazione mi sono chiesto perché nella Festa della Liberazione i veri partigiani volessero celebrarla come un’impresa personale anziché corale, come vanto esclusivo delle loro azioni, indiscutibilmente meritorie in vario modo e grado, ma non determinanti senza la potenza e il sangue delle armate amiche; perché neppure menzionarono mai, mai e poi mai, gl’Internati militari, seicentomila Italiani con le stellette che a caro prezzo avevano rifiutato il fascismo; perché in quella fausta ricorrenza non risuonò mai un doveroso “grazie” agli Alleati, dei quali visitavo negli anni i cimiteri militari, in Italia e in Europa; perché la bandiera italiana, il Tricolore, non garriva tra i festosi manifestanti, ma gemeva soffocato sotto bandiere di parte, come fosse di questa o quella parte la Festa, anziché degl’Italiani tutti.
Mi domandavo e mi domando ancora, adesso che la Liberazione ha superato tre quarti di secolo, come la mia vita, perché la generosità della Resistenza fosse stata mutata dalla convenienza politica nell’ingenerosità della Festa della Liberazione, dove non è valorizzato il contributo di tutti, a partire dalle Forze armate italiane, alle quali appartiene il più fulgido esempio di eroismo resistenziale, il vice brigadiere dei carabinieri Salvo D’Acquisto. Quel martirio è misconosciuto dagli apologeti della Liberazione e pone agl’Italiani un interrogativo denso di implicazioni morali, politiche, storiche. L’atto più eroico della Resistenza è il meno annoverato dalla Resistenza. Perché? La retorica partigiana non risponde.
Svalutare e sconoscere l’antifascismo liberale costituisce un machiavellismo tuttora indigesto per gli anticomunisti, quorum ego, i quali, mentre doverosamente riconoscono che la libertà e la democrazia furono ripristinate anche con il concorso resistenziale di combattenti che le avversavano, ne respingono in modo assoluto la loro indebita conclusione secondo cui la Costituzione sarebbe democratica perché antifascista, mentre è invece antifascista perché democratica.
M’intristisce vedere i posteri della Resistenza in agitazione per i postumi del fascismo. L’antifascismo retrodatato circolante nella Festa della Liberazione non giova, contro le buone intenzioni quando pure esistano, alla piena vita libera e democratica, l’incommensurabile lascito della vittoria sul nazifascismo, alla quale la Resistenza contribuì. Il neofascismo nostalgico, come mentalità, ideologia, abbigliamento, che fa da contraltare a quel genere di antifascismo, deve essere riposto nella soffitta della storia.
Ormai immersi nel XXI secolo, il 25 Aprile mi appare viepiù una celebrazione al passato. Non mi fa giubilare, perché continuo a sentirlo come il giorno festivo di una parte anziché come la Festa degl’Italiani. Pur quando autorevoli, i richiami al carattere nazionale risultano velatamente ipocriti. Chissà che il 25 Aprile 2045 (o, spero prima, in tempo per assistervi) i discendenti dei vincitori e dei vinti, dei nemici in guerra e degli avversari nel dopoguerra, dal lato giusto o dal lato sbagliato delle frontiere fisiche, morali, politiche, possano mostrarsi magnanimi gli uni con gli altri e pacificati, affidando alle coscienze e alle conoscenze la verità della storia, senza rotearla come una clava sulla testa dei dissenzienti.
di Pietro Di Muccio de Quattro