giovedì 27 aprile 2023
A volte può capitare che un dato tema venga esautorato mediante sigle, nomi e perfino slogan i quali, in realtà, si limitano ad accarezzare la superficie della questione, dando però l’idea, o meglio l’illusione, di cogliere la polpa dell’argomento oggetto di interesse.
Prendete Matteo Renzi. Prendete Carlo Calenda. Prendete cioè il (fu) Terzo Polo. Ergo, basta un riferimento molto vago a una collocazione politica e ai nomi di due politici dalla forte personalità (fin qui, a onor del vero, penalizzante per entrambi) e si pensa di aver compreso più o meno bene il senso del tutto, benché il tutto abbia davvero poco senso. Perché in fondo, al di là delle compatibilità caratteriali tra i singoli e gli spazi politici da occupare, o almeno da presidiare, le domande da porsi forse sono altre. Tipo: il liberalismo sbandierato, più e più volte, dai nomi succitati, in realtà di che tipo si tratta? E più in generale, cercando di essere oltremodo prosaici, nonché sufficientemente pragmatici, il liberalismo è di destra o di sinistra?
Ora, a leggere le biografie politiche sia di Renzi che di Calenda, risalta la loro provenienza da un’area progressista, sebbene edulcorata da venature di cattolicesimo democratico – in un caso – e da tratti manageriali e tecnocratici, dall’altro. Il loro, quindi, appare come un approccio alle istanze liberali provenendo da sinistra. Liberali democratici, insomma. Lib-dem nella loro versione liofilizzata. O magari, prendendo in prestito un lessico di stampo anglosassone, i nostri potrebbero ammiccare a un orientamento lib-lab, ovverosia un richiamo esplicito alla stagione politico-istituzionale griffata Tony Blair, altresì definita come quella del new laburismo.
In realtà, non un fatto totalmente inedito in quanto nel nostro Paese, mediante la creatura politico-elettorale dell’Ulivo, Romano Prodi tentò un approccio alla fantomatica “Terza Via” capace di superare il perenne duello tra capitalismo e socialismo, con una ibridazione mal riuscita delle due visioni economico-culturali. Probabilmente, più che un esperimento fallito, il tentativo di coniugare pezzi di mondi antitetici è di per sé una chimera. Non a caso, Benedetto Croce ebbe a prendere come modello iconico di rappresentanza del liberalismo di sinistra la figura mitica dell’ircocervo. La stessa immagine utopica che anni dopo adoperò Fabrizio Cicchitto per denominare la rivista di approfondimento della sua fondazione denominata “Riformismo e Libertà”.
A dirla tutta, nelle righe precedenti, sono stato assai lacunoso per quel che concerne i riferimenti storici nazionali di matrice riformista. Perché ancor più del professore bolognese, degli ulivi, delle margherite e del fogliame vario, il primo ad aver avuto il coraggio di assumere una posizione, come dire, autenticamente di sinistra ma priva dei connotati tipici del comunismo fu, senza dubbio, Bettino Craxi. Il suo socialismo, infatti, fu un caso decisamente isolato nel panorama di una sinistra che non ha mai conosciuto una sua personale “Bad Godesberg” a differenza di quello che accadde, per l’appunto, in Germania sul finire degli anni Cinquanta, quando si gettarono le basi per la futura socialdemocrazia teutonica. Una prospettiva programmatica declinata con meno Karl Marx e più pragmatismo.
Torniamo però alla domanda sulla natura del liberalismo e su quale tipo di politica spingano Renzi e Calenda, al di là delle liti condite con i vari personalismi di sorta. E quindi, il dubbio torna a bomba: destra o sinistra? Il compianto professor Antonio Martino tendeva a porre la questione su un piano pressoché manicheo. E cioè che, alla fine dei conti, la scelta non possono che essere due: o si sta con lo Stato oppure con il singolo individuo. Tertium non datur.
Aggiungo che qualche decennio fa sollevò non poca curiosità un saggio scritto a quattro mani da Alberto Alesina e Francesco Giavazzi dal titolo indubbiamente provocatorio, “Il liberismo è di sinistra”. Il filo logico presente lungo le pagine del tomo aveva (e ha tuttora) non poca pregnanza con il buon senso dettato dall’esperienza empirica. Tuttavia gli autori, nell’andare a rievocare i vari esempi virtuosi di politiche liberiste, di fatto ratificavano la maggiorazione delle destre nel praticare la libertà nei vari contesti economici e sociali. E nell’incentivare forme di concorrenza in mercati sempre più aperti.
Ma, d’altronde, scatta quasi come un automatismo nel pensare a figure quali Margaret Thatcher e Ronald Reagan ogni qualvolta si parla di liberalismo. Guarda caso, due tra i leader politici nella storia occidentale che, parimenti, possono essere definiti senza ombra di dubbio anche come degli autentici conservatori. Il problema, forse, nonostante il valido supporto intellettuale derivante da quotidiani di area e da alcune fondazioni come l’Einaudi, sta nel fatto che Calenda e Renzi, al di fuori di alcuni provvedimenti aderenti a una impostazione metodologica dell’individualismo, non pare abbiano una visione chiara e lucida sulla società nel divenire e, ancor più, non pare che siano riusciti a debellare tutte le proprie remore nei confronti di un mercato davvero libero di fare, sbagliare per poi ancor meglio produrre e migliorare la condizione delle persone e delle singole comunità.
In fin dei conti, la differenza tra il liberale e il liberal sta tutta qui: il primo non solo ha una vocale in più ma tende sempre a tutelare la più piccola tra le minoranze sociali, ovvero la persona, avrebbe detto Ayn Rand. Una studiosa probabilmente poco letta sia da Carlo Calenda che da Matteo Renzi.
di Luca Proietti Scorsoni