mercoledì 26 aprile 2023
Non è chiaro se la sinistra odierna abbia registrato il marchio della Liberazione, ma non serve pagare la relativa tassa, basta scriverla con la maiuscola, chi osa la minuscola è un fascista. Partigiani di trent’anni, nati cinquant’anni dopo le gesta di quelli veri, ragazzi che percorrono le stesse montagne delle gloriose brigate con il proprio Suv (maiuscolo anch’esso) con tanto di Bluetooth. Il più giovane partigiano, un bambino, su tutti i giornali come un fenomeno da baraccone: partigiano in che senso? Tessera? Attenzione, qualcuno obietta che per averla bisogna dimostrare qualcosa di concreto che non può esistere nella vita di un giovane. Partigiani una volta, partigiani per sempre. Ma almeno una volta. Contro i fascisti: ma dove sono i fascisti? Gruppuscoli in maschera imbarazzanti per chiunque, anche per chi si professa di destra. Oppure Ignazio La Russa che va a Praga, implicitamente trasformando in fascista il povero Jan Palach, reo di essersi ribellato ai compagni sovietici.
Il 25 aprile come marchio di fabbrica, una fabbrica che produce tutto fuori che democrazia, ma che, come avviene troppo spesso nel commercio e nell’industria, simboleggia ciò che non esiste in nome di qualcosa che scava nelle coscienze di chi accetta l’immobilismo furbacchione. Destra e sinistra sono due contenitori di pensieri vari, spesso intrecciati fra loro, spesso sovrapposti, ancora più spesso nebulosi e confusi. Ma se si facesse un referendum, o magari un sondaggio, ma serio, per capire quanti italiani tornerebbero al fascismo vero, quello nero, il risultato dimostrerebbe quanto ridicole sono le paure che la sinistra nebulizza nell’aria per taggare come fascisti tutti quelli che non appartengono al carrozzone sbiadito. E i moderati tacciono, abbozzano, evitano polemiche per paura di essere marchiati dal fuoco rosso che bolla come neri anche se non lo si è affatto.
Abolire il 25 aprile, magari, no. Ma togliere al 25 aprile il marchio populocratico che serve a nascondere il nulla, farebbe mancare un argomento portante, per dar colore a uno schieramento grigio che in nome della sopravvivenza abbandona la politica vera preferendo gli specchietti per allodole delle parole-chiave schleiniane. È parola-chiave anche 25 aprile, anzi, è una parola d’ordine, come le definizioni distorsive dei tesserati Pci ai quali era stato dato l’ordine di chiamare fascista chiunque non fosse comunista. Erano un po’ più blandi con i democristiani, la cui ala sinistra li avrebbe portati all’odierna ammucchiata piddista, e forse questa profezia già aleggiava fin dagli anni Ottanta. Chi conosce il significato della parola obiettività sa che al comunismo non si contrappone il fascismo, che vive di estremismi simili, ma il liberalismo, che giudica le situazioni di volta in volta da molteplici punti di vista: ebbene, in cellula si insegnava a insultare, ad esempio, i liberali definendoli liberal-fascisti, dunque, fascisti. Come dire: milan-interisti.
Anche in Portogallo si festeggia il 25 aprile, che dà il nome al ponte sul Tejo un tempo intitolato al dittatore António de Oliveira Salazar. La rivoluzione dei garofani, un popolo silenzioso che offriva i fiori ai soldati, infilandoli nelle canne dei fucili. È una festa di tutti, che ricorda la cacciata del dittatore Marcello José das Neves Alves Caetano senza farne una speculazione né insultare l’avversario. La loro liberazione avvenne nel 1974, ma nessuno se ne fa un vanto, anche se da allora sono passati meno di cinquant’anni. Un’idea, un sogno assurdo: per rendere l’Italia meno ridicola di quanto appaia al mondo intero, si celebri tutti insieme il giorno in cui si aboliranno le celebrazioni e si inizierà a parlare di cose concrete, non di avatar ingialliti.
di Gian Stefano Spoto