mercoledì 26 aprile 2023
Sebbene anche i sassi abbiano compreso che l’argomento non sposta più alcun consenso da molti anni, per l’ennesima volta la festa del 25 aprile si è trasformata in una sorta di apoteosi dell’antifascismo militante. Una apoteosi di frasi fatte e di ricostruzioni storiche sempre molto suggestive che, ancora una volta, impediscono al Paese di costruire un racconto attendibile rispetto al dramma bellico che distrusse quasi completamente l’Italia, tanto sul piano materiale che su quello morale e psicologico.
Sebbene siano trascorsi ben 78 anni da quei fatidici momenti in cui le preponderanti Forze Alleate sfondarono la Linea Gotica, mettendo in fuga un esercito tedesco oramai disfatto e quasi del tutto privo di rifornimenti, ancora oggi troviamo articoli in cui viene esagerato oltremodo il limitatissimo contributo che il movimento partigiano dette alla sconfitta del nazifascismo. A tal proposito, così scrive l’Ansa in un lancio: “La guerra non finì il 25 aprile 1945. Questo è un giorno simbolico, scelto perché in questa data cominciò la ritirata dei tedeschi e dei soldati della Repubblica di Salò da Milano e Torino, in seguito allo sfondamento della Linea Gotica da parte degli alleati e all’azione della Resistenza”.
Ora, forse sarebbe il caso di dire una volta per tutte che il contributo che la Resistenza italiana, seppur costellato da indubbi atti di coraggio, fu abbastanza risibile nell’economia di un fronte bellico il quale, seppur considerato secondario, vedeva contrapposti due grandi eserciti potentemente armati. Il partigiano Giorgio Bocca, che non è stato certamente un uomo di destra, contava 80mila uomini ai primi del marzo 1945, saliti a 130mila il 15 aprile, citando una stima del comando generale partigiano, e calcolava che “nei giorni dell’insurrezione saranno stati 250-300mila a girare armati e incoccardati”.
E questo improvviso rigurgito patriottico, che probabilmente negli anni successivi si sarebbe dilatato ulteriormente, ci richiama alla mente una celebre frase pronunciata da Winston Churchill: “Bizzarro popolo gli italiani. Un giorno 45 milioni di fascisti. Il giorno successivo 45 milioni tra antifascisti e partigiani. Eppure questi 90 milioni di italiani non risultano dai censimenti”.
In ultima analisi, se è vero come è vero che la propaganda mal si concilia con il tentativo di operare una seria analisi storica, se continuiamo con la trita retorica di fatti simbolici spacciati per eventi epocali, il Paese nel suo complesso non farà mai i conti con l’ingombrante passato di un ventennio fascista il cui regime, elemento che probabilmente molti giovani di oggi ignorano, godeva di un vastissimo consenso popolare prima che l’Italia entrasse in guerra al fianco della Germania nazista. Un consenso che l’insensata scommessa decisa da Benito Mussolini, contando su un rapido esito del conflitto e consapevole di non poter contare su adeguate risorse militari, dilapidò rapidamente a causa dei continui rovesci a cui andammo incontro in una guerra nella quale mai avremmo potuto prevalere. Una guerra di risorse umane e materiali come fu quella precedente svoltasi nelle trincee d’Europa. Basti dire che mentre la capacità produttiva dell’Asse, includendo il Giappone, non raggiungeva il 18 per cento di quella globale, le nazioni contrapposte, con in testa gli Stati Uniti, arrivavano ad uno stratosferico 70 per cento. Numeri che in una guerra convenzionale non lasciavano alcun dubbio su chi avrebbe vinto. Tant’è che un altro dittatore di quel periodo, il caudillo Francisco Franco, fortemente ispirato dal fascismo, dal quale fu anche sostenuto militarmente, mantenne sostanzialmente il potere assoluto fino alla sua morte, avvenuta il 20 novembre del 1975. E nulla ci vieta di pensare che se lo sprovveduto uomo di Predappio avesse seguito l’esempio dello scaltro generalissimo iberico, il quale evitò in ogni modo di farsi coinvolgere nel più grande conflitto della storia mondiale, avrebbe tranquillante potuto seguire il suo esempio.
di Claudio Romiti