Renzi-Calenda: Attenti a quei due

sabato 15 aprile 2023


Matteo Renzi e Carlo Calenda? Guai a sottovalutarli. Oggi litigano sulla costruzione del partito unico dei riformisti, ma descriverli come due figli di papà che per farsi reciprocamente dispetto rompono il giocattolo è quantomeno semplicistico e fuorviante. La rottura, intervenuta tra i due, ha motivazioni serie, per comprendere le quali non occorrono espressioni caricaturali. Azione e Italia Viva, preso atto del fallimento di un progetto ardito, devono necessariamente riposizionarsi. E proprio il riposizionamento strategico risulta al momento impraticabile nella combinazione unitaria per la semplice ragione che tra le due forze politiche, di là dalla convergenza su un programma elettorale e sulle candidature, non vi sia una visione condivisa circa la futura collocazione dell’area centrista sulla scena politica. Ma facciamo un passo indietro. Prima Matteo Renzi, poi Carlo Calenda lasciano il Partito Democratico nella convinzione che una terza via al bipolarismo, radicato nella contrapposizione frontale tra un centrosinistra e un centrodestra, sia possibile anche in costanza di una legge elettorale – il Rosatellum – che premia le aggregazioni coalizionali. L’idea, benché suggestiva, viene letteralmente demolita dalla successione dei risultati delle urne riscontrati in cinque tornate elettorali – una per le Politiche e quattro per le Regionali in Sicilia, nel Lazio, in Lombardia e in Friuli-Venezia Giulia – tenutesi tra il settembre dello scorso anno e questo mese di aprile.

Indipendentemente da chi le abbia vinte e chi invece le abbia perse, il dato politico decisivo, emerso dal voto, è dato dall’incontrovertibile volontà degli italiani di preferire il sistema bipolare a soluzioni che lascino mani libere alle forze partitiche di combinare in Parlamento maggioranze di governo non in linea con gli orientamenti dell’elettorato. Il progetto costruito da Renzi e Calenda puntava a incuneare un’area di centro tra i due schieramenti principali, che avesse tale forza numerica in Parlamento da annichilire le vocazioni maggioritarie della sinistra e della destra e ne impedisse l’autosufficienza ai fini della costruzione di maggioranze di governo. Sappiamo com’è andata. Lo scorso 25 settembre la lista Azione-Italia Viva per Calenda presidente ha ottenuto alla Camera dei deputati il 7,79 per cento dei consensi e 21 seggi; al Senato il 7,73 per cento e 9 seggi. Se alle Regionali in Sicilia, svoltesi in contemporanea con il voto per le politiche, la lista Azione-Italia Viva ha replicato il risultato nazionale (7,79 per cento), successivamente nel Lazio, dove la lista Calenda-Renzi si presentava in coalizione con il Partito Democratico, ha ottenuto il 4,86 per cento; in Lombardia, dove il Terzo polo sosteneva la candidatura dell’outsider Letizia Moratti, ha conseguito il 4,25 per cento; in Friuli-Venezia Giulia, con un proprio candidato, ha ottenuto il 2,73 per cento.

Alla luce di un tonfo clamoroso i due leader centristi non potevano non pensare a un riposizionamento strategico che coinvolgesse il processo di unificazione dei due partiti in un unico soggetto politico. La fase di transizione prevedeva, come primo step, la creazione di un contenitore unico nel quale fare confluire i gruppi parlamentari di Azione e Italia Viva; in seconda battuta, lo scioglimento dei due partiti e la costituzione di un soggetto politico unico. Ora, se il primo step non è messo in discussione per evidenti convenienze, anche economiche, a presentarsi uniti in Parlamento, quello che è saltato in queste ore è il secondo step. Perché? Le questioni poste da uno stizzito Carlo Calenda sull’indisponibilità di Renzi a sciogliere anticipatamente Italia Viva e a mettere in comune la cassa appaiono risibili. Verosimilmente, il leader di Azione, con l’elezione dell’ultra progressista Elly Schlein alla guida del Partito Democratico, ha visto profilarsi la possibilità di diventare un punto di attrazione per la corposa area liberale-riformista del Pd, pesantemente penalizzata dalla svolta a sinistra intrapresa dal nuovo corso del partito.

Plausibilmente, Calenda pensa di rappresentare una sorta di gruppo di élite che faccia da contrappeso pensante a un poco riflessivo e massimalista movimentismo impersonato dalla “liberal” Schlein. Ciò comporterebbe una collocazione degli “azionisti” di Calenda in forma organica nel campo del centrosinistra, sulle orme dell’esperienza politica del Partito d’Azione, nato e vissuto tra il 1942 e il 1947 e al quale con ogni evidenza Carlo Calenda ha inteso ispirarsi nella scelta del nome del suo movimento politico. Tuttavia, il Partito d’Azione, nonostante i magri risultati riportati alle elezioni del 2 giugno 1946 per l’Assemblea costituente, non mancò di fornire alla nuova Italia repubblicana, che sorgeva dalle ceneri della tragedia della Seconda guerra mondiale, un personale politico di altissima qualità, che è agli onori della storia della nazione. Ora, senza scadere nella volgarità, viene difficile pensare che Calenda possa convincerci del fatto che, come nella celebre aria del Rigoletto, una Mariastella Gelmini e una Mara Carfagna, “questa o quella pari sono”, in quanto a statura politica, a un Ferruccio Parri, un Ugo La Malfa, un Riccardo Lombardi, un Leo Valiani. Ma tant’è.

Matteo Renzi, invece, non abdica all’idea di rappresentare il “terzo incomodo” alla tavola dei grandi. Ciò comporta il rafforzamento di una libertà assoluta da vincoli che lo legherebbero a uno dei due poli maggiori. La tattica corsara di Matteo Renzi sta nell’affiancarsi episodicamente, cioè senza cementare rapporti organici, all’una o all’altra delle coalizioni, a seconda degli interessi della propria base elettorale, delle convenienze dei dirigenti del partito e del momento storico. Attraverso tale chiave deve essere interpretata la decisione, tutt’altro che bizzarra, di Matteo Renzi di assumere la direzione editoriale del quotidiano Il Riformista. Forte di un rapporto con l’editore, Alfredo Romeo, che risale ai tempi in cui un giovane Renzi faceva il bello e il cattivo tempo da Palazzo Chigi, il leader di Italia Viva intende usare il tema del garantismo per sollecitare una qualche scomposizione nel traballante mondo post-berlusconiano di Forza Italia. Non a caso, Renzi ha chiamato a ricoprire il ruolo di direttore responsabile del giornale l’ex parlamentare forzista Andrea Ruggieri, caro a Silvio Berlusconi e al suo potente zio, Bruno Vespa.

Renzi si prepara a un lungo ed estenuante stop-and-go con il Governo Meloni nella convinzione di poter trarre profitti elettorali da un’opposizione “diversamente dialogante” con la maggioranza. Tale schema tattico è assolutamente inconciliabile con il riposizionamento a cui pensa Calenda. A tentare una previsione possiamo dire che il contenitore unico per Azione e Italia Viva, posto sotto il segno zodiacale del progressismo liberale-progressista macroniano, resterà attivo almeno fino alle Europee del 2024 dove, per conquistare seggi all’Europarlamento, bisognerà superare la soglia di sbarramento del 4 per cento (Legge 10/2009). Invece, il futuro unitario del Terzo polo resta in mente Dei. Anche se dubitiamo che financo il Padreterno ci abbia capito qualcosa del rapporto tra quei due. Carlo e Matteo.


di Cristofaro Sola