giovedì 13 aprile 2023
Chi usa a sproposito le parole di lingua inglese, gli anglicismi, non dev’essere punito, ma bocciato in italiano. La questione della nostra lingua nazionale è davvero complessa. In generale, il linguaggio non si può né inventare né imporre. È uno dei più sorprendenti frutti dell’ordine umano spontaneo, non inventato da chicchessia. Costituisce la creazione inconsapevole dell’homo sapiens. Le parole nascono dall’uso. I vocabolari, le grammatiche, le sintassi vengono dopo, essi sì elaborati dalla mente degli studiosi. In particolare, gli anglicismi hanno duplice natura. Per metà sono un problema di costume. Per l’altra metà sono un problema di vocabolario e lingua italiani, che può essere risolto senza ricorrere ai Carabinieri e alla Crusca. Nei linguaggi tecnici la prevalenza dell’inglese pare ormai irreversibile. Il sapere superiore, scientifico e accademico, e gli scambi internazionali sono appannaggio della lingua inglese, un po’ come il latino nel Medio Evo. La lingua italiana, peraltro sempre più apprezzata nel mondo sebbene appartenga soltanto al nostro Paese, può e deve essere depurata dalle parole inglesi non tanto per purismo linguistico/letterario quanto per chiarezza di espressione e di pensiero.
Sono dell’opinione che nella parlata comune la maggior parte degli anglicismi venga adoperata per pigrizia, ignoranza, ostentazione. Tre difetti, se non addirittura vizi, perniciosi anche nel parlare e scrivere. Parafrasando Galileo, lo cito spesso a riguardo, rilevo che “parlare e scrivere oscuramente lo sa fare ognuno, ma chiaro pochissimi”. Accade perché, inclino a credere, espressività e semplicità vengono poco insegnate e meno tenute in conto, anche per il preconcetto modernista secondo cui bisogna familiarizzarsi con i “nuovi linguaggi” per apparire, se non essere, aggiornati, una condizione ritenuta positiva a prescindere dai contenuti. Comunque, tutto inizia dall’istruzione scolastica e universitaria. Se le elementari e le medie non insegnano ad esprimersi correttamente e limpidamente in italiano, hanno già disatteso il compito principale. Quanto alle università, che dovrebbero conservare e trasmettere il sapere, esse sono giustamente concentrate sui contenuti degl’insegnamenti e delle ricerche. Tuttavia, la loro missione è incompiuta se trascurano il modo in cui gli uni e le altre sono esposti nella lingua patria. A tacere che qualche università italiana ha deciso d’impartire insegnamenti solo in inglese!
Viene poi, ed è dirompente, l’abuso degli anglicismi nei modi e nei mezzi di comunicazione. Radio, televisione, giornali diffondono ormai un idioma che della lingua classica ha conservato poco, non solo per la povertà di vocabolario e di costrutto ma anche, appunto, per il miscuglio di italiano elementare e anglicismi giustapposti, miscuglio del quale talvolta, come in economia, è difficile afferrare il filo.
La difesa della lingua italiana è necessaria per conservare il carattere nazionale del nostro popolo. Ma la difesa deve essere legittima, cioè esercitata mediante la cultura, contrapponendo la nostra, della quale il linguaggio costituisce il plinto fondamentale, all’altrui. Vocabolo nostro contro vocabolo inglese, salvo le eccezioni giustificate dall’eventuale vuoto lessicale della nostra lingua. L’impiego abusivo, ridondante, degli anglicismi rappresenta un segno di debolezza, non di forza espressiva. La condiscendenza linguistica verso i Britannici è semplicemente ridicola e fastidiosa. Specialmente i direttori di giornali e delle reti d’informazione dovrebbero impegnarsi in questa battaglia culturale e combatterla affiancati dai loro giornalisti. Per devozione alle divinità che sovrintendono al mestiere della comunicazione: la “Dea Spiegazione” per i redattori che devono farsi intendere e la “Dea Comprensione” per i lettori che devono capire.
Fino a quando, dunque, abuseranno della nostra pazienza? Quando smetteranno di disgustarci con sold out anziché tutto esaurito, con step invece di passo, con trend in luogo di tendenza, e tutor persino pronunciato all’inglese con labbra strizzate (duckface!) in sostituzione di tutore?
di Pietro Di Muccio de Quattro