mercoledì 12 aprile 2023
Questa settimana il Governo Meloni è atteso a una prova di grande maturità istituzionale. Parliamo della cosiddetta partita delle nomine. C’è da scegliere i vertici, in scadenza nei prossimi mesi, di 105 società pubbliche o partecipate dallo Stato. Sul piatto ci sono i gioielli imprenditoriali che fanno capo alla mano pubblica. Da Enel, a Eni, a Leonardo, a Poste e a Terna; ma anche aziende minori che, unitamente ai giganti a dimensione multinazionale, hanno prodotto nel 2022 un fatturato di 189,9 miliardi di euro, utili per 10,6 miliardi, con 288.146 dipendenti (fonte: Fortune Italia).
Si tratta di un pezzo importante della ricchezza prodotta nel nostro Paese. È perciò comprensibile che sulla questione si possano focalizzare gli appetiti dei partiti che compongono la maggioranza di Governo. Potrebbe esserci la tentazione, in chi governa, di “piazzare i suoi”, a prescindere dalle effettive competenze dei candidati. Interrogata sul tema, Giorgia Meloni si schermisce affermando che “si lavora guardando al merito e alla strategicità delle aziende, soprattutto ora tenendo conto del Pnrr e delle strategie energetiche dell'Italia”. Che, tradotto dal politichese, sta a significare: niente amici degli amici, nei posti-chiave prendiamo i più bravi. Come criterio di scelta, ci potrebbe stare. Un Governo che ha fatto del merito la propria bandiera decide di affidarsi alla selezione meritocratica per attribuire la guida delle aziende pubbliche. Tuttavia, un tale approccio all’individuazione del management delle aziende di Stato potrebbe nascondere una debolezza dell’attuale maggioranza parlamentare nel disporre di personale tecnico affidabile proveniente dalle proprie fila politiche, perciò ideologicamente orientato. E celerebbe anche una scarsa chiarezza di idee del Governo sulla sinergia da costruire con l’apparato industriale-finanziario statale.
D’altro canto, pensare che la chiave per amministrare colossi industriali sia la neutralità ideologica delle governance aziendali rispetto agli indirizzi governativi sarebbe un errore gigantesco. Tra chi governa e chi fattualmente guida le aziende di proprietà pubblica vi deve essere una sintonia operativa e di scopi, che non può limitarsi a una generica condivisione di fumose linee di principio. È anche su una tale convergenza di forze che regge e si sviluppa una matura società democratica. Non è forse vero che nella più grande democrazia esistente al mondo, gli Stati Uniti d’America, la pratica dello spoil system sia pacificamente applicata e non venga minimamente criminalizzata? In Italia, nel tempo della Seconda Repubblica, si è diffuso il malvezzo di ritenere un valore assoluto la terzietà nella gestione dei gangli strategici della vita della nazione. Malcostume che si è spinto al paradosso di ritenere Governi cosiddetti “tecnici” soluzioni istituzionali di gran lunga preferibili agli Esecutivi scaturiti dalla volontà del corpo elettorale.
Con la crescita abnorme del numero di commissioni di controllo, di agenzie e di autority indipendenti si è fatto strame della tradizionale tripartizione del potere (legislativo-esecutivo-giudiziario) sulla quale poggia l’architettura dello Stato a impianto liberale. Il colore del partito o della coalizione di forze partitiche a cui la maggioranza degli italiani affida il Governo della nazione deve essere sempre visibile negli atti normativi che produce ma anche nelle decisioni prese dalla galassia degli enti che gravitano intorno alla Pubblica amministrazione. A scopo esemplificativo: in materia di ampliamento del comparto della costruzione di sistemi d’arma per la Difesa tecnologicamente avanzati, conoscere il pensiero di coloro che saranno destinati a dirigere il Gruppo Leonardo non è un fattore derubricabile a mera curiosità. Nominare un nemico giurato della proliferazione degli armamenti al vertice di Leonardo sarebbe come mettere Dracula alla presidenza dell’Avis. Ai tempi della Prima Repubblica, per infangare la virtuosità del criterio della lottizzazione nell’assegnazione degli incarichi pubblici, si ricorreva alla gag sulle assunzioni in Rai. La battuta era questa: ai Tg hanno preso due democristiani, un comunista, un socialista e uno bravo. Eppure, al netto dell’ipocrisia del potere che a parole nega se stesso, con quei metodi ritenuti farisaicamente deprecabili si è costruita la quinta potenza economica al mondo.
Le cose sono cominciate ad andar male quando, col pretesto di sconfiggere il malaffare veicolato dalla partitocrazia, un’ideologia dominante sul resto della società – il progressismo di sinistra – ha ritenuto che il potere pubblico fosse cosa propria e che il pluralismo nella rappresentazione, all’interno degli apparati statuali, delle differenti correnti ideologiche che attraversano la società, fosse una malattia esantematica del sistema democratico. È perfettamente comprensibile che la destra, una volta giunta alla guida della nazione, non voglia ripetere l’errore della sinistra facendo un solo boccone dei pubblici incarichi. Purtuttavia, non basta che i bravi siano riconosciuti tali. Occorre che i bravi si dicano pronti ad agire all’unisono con il Governo, non in opposizione a esso. Perché è il Governo, e non qualche conventicola di poteri più marci che forti, a incarnare l’interesse nazionale. Abbiamo sperimentato con altri Esecutivi di centrodestra quanto l’opposizione fosse trincerata in casematte poste all’esterno del perimetro parlamentare. Abbiamo visto altre centrali di potere combattere e colpire, in luogo delle sinistre debolissime, il Terzo Governo Berlusconi, fino al suo auto-affondamento. I killer politici di quel Governo, nel 2011, stazionavano al Quirinale, in magistratura, in Banca d’Italia, nelle Borse e nei mercati finanziari, in ambienti accademici, nel mondo dei media, nell’associazionismo cattolico, negli agglomerati della concertazione tra rappresentanze sindacali e datoriali, nel Terzo settore e nelle associazioni di rappresentanza degli enti locali. Per non parlare dei mandanti esteri del siluramento di Silvio Berlusconi.
Il Governo Meloni, se vuole vivere e prosperare, non deve cadere nella stessa trappola che ha azzoppato il progetto di rivoluzione liberale del vecchio leone di Arcore. Se fossimo membri della commissione che seleziona i prossimi manager pubblici – posto che ne esista una – ai candidati non chiederemmo a quale “parrocchia” partitica o correntizia siano appartenuti nel passato ma a quale appartengano nel presente e quali spunti progettuali avrebbero in animo di mettere in campo o di privilegiare se già esistenti, una volta immessi alla guida delle aziende pubbliche. Per dirla con uno slogan: meno curriculum, meno gossip e più piani industriali. In queste ore si dà per certa la riconferma di Claudio Descalzi ad amministratore delegato di Eni. Sul fronte energetico, Giorgia Meloni in prima persona ha lanciato il “Piano Mattei” che prevede la massima differenziazione nell’individuazione delle fonti di approvvigionamento del gas e del petrolio. Nei pochi mesi di vita del Governo di centrodestra, l’ad Descalzi ha portato in giro per mezzo mondo il nostro premier a stipulare accordi di fornitura con i partner più improbabili, interpretando a pieno la filosofia industriale del compianto Enrico Mattei. Ci sta, quindi, che Descalzi venga riconfermato nell’incarico, anche se si dovesse scoprire che da ragazzo ha preso parte ai collettivi studenteschi organizzati da Lotta continua. Perché conta ciò che si pensa adesso, non chi, o cosa, si sia stati nella vita passata. Descalzi è Descalzi, lo sappiamo. Ma si può dire altrettanto di tutti coloro che sono dati in pole position per sedere sulle poltrone più prestigiose e strategicamente più importanti che lo Stato-imprenditore possa mettere a disposizione?
di Cristofaro Sola