Un’ingiustizia chiamata legge

lunedì 3 aprile 2023


Vorrei non essere liberale, o comunque di destra, se questo potesse rendere ancor più sincere le righe seguenti. Perché vittima e carnefice sono tali a prescindere dal loro colore politico. Perché si può assurgere al ruolo di conservatori o di progressisti senza per forza doversi invischiare in una qualche ideologia che, per sua natura, è di certo malsana. Per anni abbiamo sostenuto – sì, abbiamo, tutti noi che crediamo nei precetti elementari di un sano garantismo – che Caino non dovesse essere toccato ma, a lungo andare, tale accortezza giuridica, in taluni casi, si è di fatto involuta in un’impunità malevola nei confronti di Abele, divenuto così duplice vittima.

Una siffatta riflessione è scaturita all’indomani del pronunciamento della Cassazione francese che ha negato l’estradizione di dieci terroristi di estrema sinistra, condannati in via definitiva per omicidio, associazione con finalità di terrorismo, concorso in rapina aggravata, concorso in omicidio aggravato, attentato all’incolumità pubblica e via discorrendo in un elenco di reati lungo quanto una messa cantata. E il tutto perché? Per la rivoluzione proletaria, l’attacco allo Stato borghese, l’abolizione della proprietà privata, la collettivizzazione dei mezzi di produzione, l’abbattimento del sistema capitalistico e tutta quell’impalcatura concettuale che, ogniqualvolta qualcuno ha tentato di scaricarla a terra, ha provocato disastri, lutti, disperazione.

A rileggere oggigiorno le rivendicazioni di taluni ingegneri sociali, al soldo delle Brigate Rosse o di Prima Linea, la prima percezione che si ha è quella, per l’appunto, di udire della paccottiglia ideologica o poco di più. Elucubrazioni fumose, rese tuttavia pregiate da sapienti mani filosofiche. Ma, repetita iuvant, foriere di un rancore in grado di muovere immense moltitudini di individui verso una prospettiva umana esiziale. Le motivazioni poi, queste sì, ai limiti del parossismo giurisprudenziale. Il tempo e la lontananza. Il tempo remoto passato dai fatti acclarati e la lontananza degli allora indagati rispetto al luogo fisico dove veniva svolto il processo. Il che messa così, in punta di diritto, ci potrebbe anche stare, se non fosse per un piccolo particolare, ovverosia che i terroristi erano (e sono) latitanti per la giustizia italiana, in quanto tutelati dalla dottrina Mitterrand. Sic et simpliciter.

Questo pezzo potrebbe terminare qui, ma sarebbe uno scritto incompleto, una forzatura insomma, poiché la vicenda non può e non deve esaurirsi in una dimensione giuridica. Ci sono almeno altri tre livelli di analisi tramite i quali approcciare codesta vicenda. C’è il piano umano con il dolore indicibile che da circa mezzo secolo intere famiglie devono sopportare, dapprima per la scomparsa improvvisa e violenta dei propri cari e poi, in ultimo, per l’impunità, oserei dire, al limite del pornografico, che si sono visti sbattere in faccia dalla sentenza francese. La loro, dato il periodo nel quale ci troviamo, è una via crucis ad personam in cui però non si ravvisa alcuna redenzione o rinascita.

Dopodiché, abbiamo il piano istituzionale, in quanto i giudici – pur nelle loro motivazioni più fantasiose – si muovono sempre seguendo la costruzione legislativa figlia di una ben precisa scelta politica. E verrebbe da chiedersi come mai i presidenti francesi succedutesi a François Mitterrand – gollisti, socialisti e da ultimo Emmanuel Macron – non abbiano sentito, in cuor loro, la necessità di modellare diversamente la sensibilità francese alla pagina terrorismo rosso.

Infine, il piano legato al pensiero. Si, perché il cosiddetto clima culturale, di certo non avverso, che ha facilitato l’accoglienza prima e l’inserimento poi dei vari terroristi in Oltralpe, si è andato irrobustendo in virtù delle innumerevoli esternazioni, rigorosamente giustificazioniste, fornite dai vari maître à penser. E attenzione: quando si parla di intellò il riferimento non è rivolto solamente a coloro che frequentano Parigi e dintorni, bensì anche ai nostri. Un esempio? Basterebbe, se non altro, andare a riprendere le dichiarazioni degli esponenti del Partito Democratico e, più in generale, delle sinistre per trovare solo delle sparute voci, tante quante le particelle di sodio nella famosa acqua. Silenzio. Un silenzio assordante, assoluto, rumoroso, ma pur sempre silenzio. A pensarci, per la sinistra il silenzio è il miglior strumento per affrontare le proprie pagine oscure. Per chiudere i conti con il proprio passato, quest’ultimo viene silenziato, invece di affrontarlo in maniera serena e senza paraocchi ideologici. È stato così per i crimini sovietici, per quelli cubani, per quelli cambogiani, per quelli vietnamiti, per quelli coreani, per quelli jugoslavi. Per il comportamento, a metà tra il complice e l’omertoso, che il comunismo italiano ha tenuto in più e più occasioni lungo il fluire della nostra storia patria. E questo nonostante il fatto che la sinistra sia sempre pronta a richiedere costantemente scuse e abiure, senza soluzione di continuità, ai propri avversari politici.

Ergo, ecco a voi il silenzio servito pure in questa occasione. Rare, rarissime le voci udibili. Il sindaco di Bergamo e, davvero, poco altro. Oggettivamente un bilancio gramo per quella che, riprendendo un brano dei Nomadi, pare essere “un’ingiustizia chiamata legge”.


di Luca Proietti Scorsoni