Il liberale riluttante

venerdì 10 marzo 2023


Ogni 100 euro di spesa pubblica ha incrementato di soli 30 centesimi il Pil”: questa rimarchevole affermazione dell’Upb (Ufficio parlamentare del bilancio) costituisce l’ennesima sentenza di condanna non solo di tutti i keynesismi, anche riveduti e corretti, ma anche degli apologeti akeynesiani del deficit spending, un levigato anglicismo adoperato in sostituzione dell’espressione italiana che suona meno accattivante: spesa a debito. Quando sento che una destra è contrapposta a una sinistra, ammetto tra me e me che differenze esistono, e non da poco, ma non sul punto essenziale che lo Stato può spendere soldi pure quando non ne ha. Milton Friedman ammonì invano i governanti: “Nessun pasto è gratis”. Infatti i parlamenti, che pure nacquero per rappresentare e proteggere i tartassati contro gl’irrefrenabili tartassatori, hanno finito con il diventare un orpello istituzionale che avalla la prodigalità dei governi.

Chi è dunque il liberale riluttante? È un sedicente liberale. Perché? Perché in cuor suo più che nella sua mente è convinto che la spesa pubblica per gl’investimenti sia parte integrante di una politica economica liberale. Però non distingue bene tra quanto spetti alla “politica” e quanto alla “economia”. Inoltre, il liberale riluttante ha ceduto all’idolum fori della modernità secondo cui bisogna industriarsi allo spasimo, costi quel che costi, a salvaguardare la persona singola anche a rischio di perdere la società intera. Cioè, il liberale riluttante ha accettato inconsapevolmente l’idea-cardine del socialismo, secondo la quale gl’individui, uno per uno, sono il tutto che viene prima, mentre la collettività nel suo insieme viene dopo. È un’idea che coincide con l’esortazione evangelica ad inseguire la pecorella smarrita. Ma il Vangelo tace sulla sorte del gregge abbandonato dal premuroso pastore. L’ipotesi più probabile è che venga disperso e sbranato dai lupi. Ma, si sa, le religioni mandano in paradiso l’uomo buono. Che importa se il mondo intorno a lui va in malora?

Il punto cruciale del rapporto tra politica ed economia sta in queste due leggi, che tali sono per me, ma non per il liberale riluttante: la prima dice che più lo Stato spende, più aumenta la probabilità che dissipi il denaro sottratto a forza dalle tasche dei contribuenti; la seconda afferma che più lo Stato spende a debito, più la dissipazione aumenta. Il liberale riluttante sembra aver dimenticato uno dei principi dell’economia, il quale vige nel collettivismo e nel capitalismo, e pure nel Cristianesimo: l’investimento è aleatorio e l’alea viene ridotta soltanto se l’investitore rischia in proprio. La realtà effettuale lo dimostra e la “parabola del seminatore” lo spiega bene. All’insegnamento evangelico dovette ispirarsi il “gesuita” (educato nel liceo dei Gesuiti, intendo!) Mario Draghi quando parlò di “debito buono” e “debito cattivo” alla platea di “Comunione e Liberazione”, guarda un po’. Purtroppo il liberale riluttante, tumido di laicità, identifica la spesa pubblica con l’investimento pubblico, scambia l’intenzione con il risultato, anche dove, all’evidenza, si tratta di spesa corrente, in ogni senso. Helmut Schmidt, Cancelliere tedesco, diceva che “gli investimenti di oggi sono i profitti di domani e i posti di lavoro di dopodomani”. Eppure era socialdemocratico, nemmeno liberale.

Lo Stato, indebitatosi irragionevolmente fino al collo, è portato ad autogiustificare l’ulteriore debito con la necessità di tamponare se non rimediare eccezionalmente alle conseguenze del debito precedente. Così l’improvvida politica del passato diventa la falsa giustificazione di un improvvido rimedio, una regola ordinaria di finanza pubblica. Il liberale riluttante non vuole sentirsi cattivo ed egoista ma stare con quelli che gl’illiberali hanno catalogato come buoni e altruisti. Perciò ha abbandonato, in teoria e in pratica, l’individualismo etico e l’etica aristotelica. Come ha scritto Charles Gave, sulla scorta di Ayn Rand, “una società fondata su un altruismo ugualitario ed ostentato va a finire sempre nella miseria e nella dittatura”.


di Pietro Di Muccio de Quattro