sabato 4 febbraio 2023
I - Il bilancio del cinquantenario
1) Nel 2020 la Repubblica ha celebrato il cinquantenario delle Regioni ordinarie, cioè delle Regioni ad autonomia normale insediate nel 1970, mentre le Regioni ad autonomia speciale furono istituite nel 1948 (Sicilia dal 1946, Sardegna, Trentino-Alto Adige, Valle d’Aosta) e nel 1963 (Friuli-Venezia Giulia). Mezzo secolo di vita è il tempo giusto per un bilancio istituzionale, sebbene l’impostazione originaria dei Costituenti sia stata “stravolta” dalla riforma costituzionale del 2001, che, inseguendo l’acritica ma forte pressione politica esercitata da propugnatori di un federalismo malinteso in teoria e antistorico nei fatti, ha abbandonato l’idea dello “Stato regionale” sancito dalla Costituzione del 1948.
2) Non furono la dimenticanza o l’insipienza le cause che determinarono il rinvio per ventidue anni dell’attuazione del completo ordinamento regionale. Fu una precisa e saggia volontà politica, che purtroppo venne meno nel 1970, non per superiori ragioni di Stato, bensì per gretto calcolo politico. La vera ragione storica della creazione delle Regioni fu enunciata con autorevolezza e realismo da Francesco Cossiga nelle sue memorie: “Il cammino verso l’alleanza tra Dc e Pci fu lento ma inarrestabile. Fu d’aiuto la convinzione che non si poteva tenere la sinistra parlamentare, un movimento così potente, fuori dalle sfere del potere. Per questa stessa ragione, in effetti, Mariano Rumor aveva avuto, anni prima, l’idea di sbloccare l’istituzione delle Regioni, le quali furono dunque varate per motivi eminentemente di equilibrio politico, non perché le si ritenesse necessarie per una migliore organizzazione dello Stato. Insomma, bisognava dare un po’ di potere ai comunisti lì ove erano più forti: in Toscana, in Emilia-Romagna, in Umbria”.
3) Pertanto, è appropriato considerare le Regioni alla stregua di un osso lanciato dai democristiani ai comunisti per placarne la fame di potere; certo non una meditata, lungimirante, indispensabile scelta istituzionale. Invano, in Parlamento, si opposero liberali, missini, monarchici, persino con un durissimo ostruzionismo. Democristiani, repubblicani, socialdemocratici, socialisti, comunisti prevalsero. La stentorea maggioranza regionalista addusse, in sostanza, quattro motivi; a suo dire, addirittura esiziali: attuare la Costituzione (22 anni dopo, ripeto!); decentrare lo Stato; risparmiare sulla spesa pubblica; ridurre la burocrazia, impiegati e apparati. Un vastissimo programma, come gl’Italiani hanno dovuto amaramente constatare. Quella maggioranza aggiunse pure motivi di contorno, buoni ad indorare tutte le pillole riformiste: avvicinare lo Stato ai cittadini; aumentare la partecipazione popolare; responsabilizzare l’Amministrazione; accrescere la democrazia dal basso (niente democrazia dall’alto, dunque). Su queste stesse basi è stato poi eretto il totem del “devoluzionismo” pseudo federalista che nel 2001 ha ribaltato l’assetto del 1948.
4) Così la Repubblica, “una e indivisibile”, ha preso a dissolversi in staterelli di stampo preunitario. Alla capitale d’Italia (ribattezzata inopinatamente Roma Capitale) si sono aggiunte venti “simil capitali” che scimmiottano in tutto e per tutto la vera capitale. Le Regioni, che non badano a spese per le loro sedi, hanno un Parlamento che si chiama Consiglio (la Liguria e le Marche deliberarono persino di chiamare Parlamento il loro Consiglio regionale e deputati i consiglieri, ma la Corte costituzionale con le sentenze 106/2002 e 306/2002 sventò il protervo tentativo di equiparazione con le Camere e dichiarò incostituzionali le delibere!), un Governo che si chiama giunta, un presidente che non a caso chiamano governatore. Lo status dei consiglieri, a parte le autorizzazioni per le inchieste penali, è sostanzialmente identico ai parlamentari, comprese le indennità, talvolta addirittura superiori. In qualche Regione hanno perfino inventato i “sottosegretari di giunta” (sic!) come se gli assessori fossero ministri, pur di disporre di una prebenda in più. Le Regioni possiedono, poi, sedi distaccate a Roma, Bruxelles, e in altre importanti città del mondo: dispendiosi uffici inutili che a loro volta scimmiottano le ambasciate.
5) Per contro, le Regioni non hanno certo né determinato uno sviluppo economico aggiuntivo né contribuito al risanamento finanziario, mentre hanno incrementato la corruzione politica ed accresciuto la sfiducia dei cittadini verso le istituzioni. La prova incontrovertibile del loro fallimento sta nella sanità regionale. Visto che la sanità assorbe il 75-80 per cento dei bilanci regionali, non è stravagante tenere in vita istituzioni pletoriche, costose, passive per gestire il servizio sanitario, quando basterebbe in ogni Regione un’autorità sanitaria, nominata dal Governo e/o dal Parlamento? (Qualcosa di simile già accade in via d’eccezione con i commissari straordinari per “risanare” i debiti eccessivi delle Regioni stesse). Alla stravaganza politica si aggiunge, ben più grave, la vergogna morale e costituzionale del trattamento differenziato dei malati, che contraddice l’essenza della sanità pubblica: uguaglianza, gratuità, universalità.
6) La realtà regionale, inoltre, dimostra anche che in Italia le riforme istituzionali non avvengono mai per soppressione, bensì soltanto per divisione ed aggiunta, essendo considerati gli apparati pubblici un bene in sé. Benché sia stato detto esattamente che “ciò che esiste in fatto tende a trasformarsi in ciò che deve aver valore”, il “valore” delle Regioni nella realtà effettiva non è apprezzabile, anzi si è capovolto in disvalore, tanto che aumentano quelli (quorum ego) che ne auspicano l’abolizione per il bene della Repubblica. E nell’augurarsela traggono il maggior conforto dal principe dei politologi italiani, Giovanni Sartori, che ha scritto l’epitaffio definitivo: “Il federalismo di Bossi per fortuna è morto; e potremmo senza danno (lo sussurro e basta) sopprimere anche le Regioni”.
II - Il “regionalismo differenziato”
1) Secondo il vocabolario Treccani on line, una forma particolare del supplizio dello squartamento in uso presso gli antichi Romani “consisteva nel legare solidamente le braccia aperte e le gambe divaricate del condannato a quattro cavalli che, lanciati in direzioni opposte, ne dilaceravano il corpo.” Può sembrare raccapricciante questa similitudine riferita al “regionalismo differenziato”, ma serve ad esprimere la mia profonda preoccupazione verso la “riforma” che i cascami del leghismo padano stanno per infliggere agl’Italiani distratti. Il vento del secessionismo ha ripreso a spirare sotto il falso nome della “differenziazione” delle competenze regionali, la quale sarà il prodromo dello squartamento dello Stato, il colpo di frusta che spronerà i cavalli. Lo smembramento della Repubblica, proclamata una e indivisibile dalla “Costituzione più bella del mondo”, è iniziato nel 1970 con l’istituzione delle Regioni ordinarie, delle quali l’Italia aveva fatto a meno per 22 anni, risollevandosi dalle distruzioni della guerra e prosperando fino a diventare una potenza economica mondiale. Tanto le Regioni erano indispensabili!
2) Poi, nel 2001, la coalizione politica Ulivo, Pdci, Udeur, Indipendenti, illudendosi di sfruttare “il vento del Nord” e di beneficiarne nel voto politico di quello stesso anno, approvò la revisione del Titolo V della Costituzione, mediante la quale fu innovato in profondità l’assetto di Regioni, Province, Comuni, istituendo uno scriteriato pseudo federalismo che ha comportato, tra l’altro, il più imponente conflitto di attribuzioni tra Stato e Regioni. Quel Governo e quei partiti disarticolarono così la Repubblica e furono pure sconfitti nelle urne. Né si posero le domande cruciali che invece avevano posto invano gli oppositori: “Era indispensabile nel 1970 elevare le Regioni al rango del legislatore nazionale? Avevano esse talmente meritato nei decenni successivi da doverle portare al livello di ‘entità para-statuali’ confederate con lo Stato italiano?”. Le risposte sono: “Non era indispensabile” e “Avevano demeritato”. Le ragioni addotte per istituirle nel ’70 e potenziarle nel 2001 sono smentite dai fatti. Anzi, sono pervertite negli opposti: più spese pubbliche; maggiori costi della politica; più burocrazia; maggiori tributi (le addizionali!). Il “devoluzionismo” del 2001 ha ribaltato l’assetto originario e attribuito alle Regioni la legislazione esclusiva sulle funzioni non esplicitamente riservate allo Stato, oltre la legislazione concorrente. Peggio ancora, ha dato la stura alle richieste di “regionalismo differenziato”, del quale, nonostante la pretesa necessità e urgenza, continuano tuttavia ad esser controversi se non addirittura oscuri i modi e i mezzi di realizzazione.
3) L’assunto dei “differenzialisti” è che il “devoluzionismo”, proclamato sulla Carta, resta incompiuto. Bisogna andare oltre, dicono, perché, stando così le cose, le Regioni sono impastoiate e non possono sprigionare tutti i presunti benefici della riforma “devoluzionista” del 2001. Ma la “differenziazione regionale” implica di necessità una “differenziazione degli amministrati”, non soltanto delle competenze, delle funzioni, degli organi delle Regioni. Se no, che senso avrebbe “differenziare”? In questo campo, la “differenziazione” intesa come concorrenza istituzionale tra Regioni pare esclusa quanto meno dal tassativo divieto costituzionale delle discriminazioni contrarie all’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Infatti la lingua dei “differenzialisti” batte dove duole il dente degli “antidifferenzialisti”, cioè sui Lep (Livelli essenziali delle prestazioni) e sui Lea (Livelli essenziali di assistenza). I Lep sono affidati allo Stato. I Lea spettano alle Regioni. Lo Stato ha legislazione esclusiva sulla “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale” (articolo 117.II, lettera m). Poiché “la salute è diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività” (articolo 32.I), la Sanità regionale, già profondamente discriminatoria perché i tributi pagati in una Regione non “rendono” in cure sanitarie quanto i tributi pagati in un’altra Regione (donde il tristissimo “turismo sanitario”, che, a parte i disagi e gli oneri degli infermi e delle loro famiglie, costa caro alle Regioni che rifondono alle altre Regioni le spese per i malati costretti a curarsi lì), dovrà attenersi a livelli minimi di assistenza uguali per tutto il territorio nazionale anziché viepiù diseguali per i malati in base alla Regione di residenza. L’adozione del “regionalismo differenziato” nella sanità pubblica somiglia ad un viaggio verso l’ignoto. Pur senza considerare i Lep, come potranno ottenersi i Lea uniformi ed equivalenti in tutte le Regioni, “differenziate” e no, come impone (articoli 3.I; 32.I; 117.II, lettera m) la Costituzione?
4) Le “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” nelle materie specificate (articolo 116.3) possono essere ottenute dalle Regioni ordinarie mediante una complessa procedura la cui ratio consiste nel frenare, non nell’incoraggiare o accelerare il processo di “differenziazione”. I costi della “differenziazione” aspettano ancora un esperto ragioniere che, realisticamente, li quantifichi euro per euro, considerando anche i problemi implicati e connessi, qualitativi e quantitativi, della finanza diretta, della compartecipazione ai tributi erariali, del fondo perequativo statale. Le Regioni ordinarie sono costate sempre di più al cittadino. Il “regionalismo differenziato” ne aumenterà i costi, senza corrispondenti vantaggi se non a favore della classe politica così accresciuta (cariche da conferire, impieghi da ricoprire, soldi da spendere, eccetera). La “differenziazione” avviene in base ad una intesa tra lo Stato e la Regione che le Camere approvano a maggioranza assoluta dei componenti. La procedura è stata avviata da alcune Regioni, forti dei referendum approvati da loro concittadini, ignari del significato della “differenziazione” in senso specifico ma vogliosi di “staccarsi da Roma” in senso generale. Un ministro è al lavoro. I dettagli delle intese sono ignoti all’opinione pubblica, peraltro ahimè disinteressata, mentre Lep e Lea restano in mente Dei.
5) Del “regionalismo differenziato” dovranno pentirsi parimenti chi, illuso dalle aspettative, lo reclama e chi, deluso dalla realtà, lo teme. A dispetto della “verità effettuale”, dopo trent’anni di regionalismo ordinario e vent’anni di regionalismo rinforzato, il regionalismo differenziato viene di bel nuovo considerato salvifico alla stregua dei regionalismi precedenti, come allora senza plausibili ragioni e puntuali verifiche; anzi, con l’assoluta convinzione del buon esito della riforma, ancorché senza vagliarne le inevitabili conseguenze inintenzionali. Per adesso, l’unica cosa sicura è che i cavalli del supplizio (le Regioni “differenzialiste”) hanno preso a scalpitare irrequieti. Quando spronati, potranno disarticolare l’Italia già stanca della sua giovane unità nazionale.
di Pietro Di Muccio de Quattro