41 bis: un po’ di buona informazione

sabato 4 febbraio 2023


Abbiamo detto mille volte che i temi della giustizia penale si discutono ormai come si parla di calcio tra curve contrapposte. Ignoranza, visceralità, totale indisponibilità all’ascolto. Il tema del 41 bis ovviamente non si sottrae a questa desolante regola, anzi la esalta, come stiamo vedendo in questi giorni.

Come uscire da questo pantano, da queste sabbie mobili nelle quali annegano razionalità e civiltà del confronto di idee? È semplice: basterebbe fare della buona, onesta, documentata informazione.

Chi come me – e come da sempre tutti i penalisti italiani – denuncia con forza la barbarie di questo istituto, non pensa nemmeno per un attimo che lo Stato non abbia il diritto ed anzi il dovere di differenziare i regimi di detenzione a seconda della pericolosità criminale del detenuto. È ovvio che un soggetto qualificato come un pericoloso capomafia debba essere ristretto in condizioni tali da non poter continuare ad esercitare il proprio potere criminale. Questa finalità preventiva del regime custodiale, a garanzia della sicurezza sociale, non può sensatamente essere messa in discussione da nessuno.

Senonché il regime normativo e regolamentare dell’articolo 41 bis dell’Ordinamento penitenziario persegue questa legittima e giustissima finalità con modalità tali da risolversi invece nella sistematica – ed in alcuni casi addirittura sadica – umiliazione delle condizioni minime di dignità della persona detenuta, senza che peraltro ciò abbia nulla a che fare con la tutela della sicurezza sociale. E questo ha una ragione storica, visto che la norma fu introdotta sull’onda delle stragi di Capaci e di via D’Amelio, in pieno stragismo mafioso. Lo Stato reagì con straordinaria durezza, letteralmente “murando vivi” i detenuti per mafia di più alto lignaggio e più pericolosi. Ciò fu possibile perché la norma nacque come provvedimento esplicitamente eccezionale e transitorio, così giustificandosi la ferocia delle misure; à la guerre comme à la guerre, insomma.

Senonché quella eccezionalità, proroga dopo proroga, e divenuta la regola, e da pochi mesi o forse un anno che avrebbe dovuto sopravvivere, esiste e prospera da trent’anni.

Dicevo allora della buona informazione, che nessuno fa. Vorrei darvene io qualcuna.

I detenuti al 41 bis hanno l’obbligo di rimanere in cella per 21 ore al giorno. Hanno diritto massimo a due ore d’aria (in cortili con alte mura) e ad una di “socialità”, riducibili ad una sola ora d’aria per ritenute ragioni di pericolosità. Nelle “aree riservate”, cioè di massima sorveglianza (dei veri e propri sottoscala) l’ora d’aria si fruisce in piccoli e ristretti cortili, che non permettono nemmeno di azzardare un passo di corsa. Colloqui con moglie, figli, familiari: un’ora al mese, e sempre divisi da un vetro. Un detenuto non può nemmeno sfiorare la mano di un figlio o di una moglie per anni, quando non per il resto della propria vita. Tranne un paio di eccezioni, i reparti 41 bis non sono dotati di struttura sanitaria adeguata. Salvo necessità di natura ospedaliera, le visite mediche, qualunque ne sia la natura, urologica od odontoiatrica, si svolgono nella medesima stanza, con le ovvie conseguenze in termini di igiene. Ma soprattutto – udite udite – avvengono alla presenza di un agente della polizia penitenziaria, che sta addosso a medico e paziente ascoltando la conversazione ed assistendo alla visita, qualunque manovra il medico debba compiere: e qui l’umiliazione della dignità della persona tocca l’apice. Lo scambio di piccola oggettistica tra soggetti dello stesso gruppo di socialità è vietato, salvo autorizzazione del Giudice di sorveglianza, reclamabile dal Dap. Fino al 2018 era vietato cucinare in cella (è dovuta intervenire la Corte costituzionale). Non si possono ricevere libri per studiare, non si può essere seguiti da professori o tutor. Abbigliamento e libri di lettura contingentati. Solo da pochi anni si può guardare la televisione, ma i canali sono limitatissimi. Non si può ascoltare musica, per quanto incredibile questo possa essere. E molto altro ancora potrei raccontarvi.

Voi pensate che tutto questo abbia a che fare con la tutela della nostra sicurezza? Io penso proprio di no. Io penso che sia una feroce, stupida, sadica volontà di annientamento della persona. E questa, qualunque sia il crimine che possa aver commesso quella persona, è una vergogna indegna di un Paese civile. Io non credo che ascoltare Chopin in un buco di cella possa mettere in pericolo la sicurezza nazionale. E nemmeno farsi controllare la prostata lontano dagli occhi di una guardia carceraria. E nemmeno baciare la guancia dei propri figli, o la mano della propria moglie. E penso che chi lo pensi, dovrebbe vergognarsene, e magari farsi visitare da un bravo psicologo.

Possiamo cominciare a parlarne, finalmente, di 41 bis?

(*) Presidente dell’Unione delle camere penali italiane


di Gian Domenico Caiazza (*)