L’Msi visto da un liberale di destra

venerdì 30 dicembre 2022


È una mia riflessione di qualche anno fa, che voglio riproporre oggi, perché tornata d’attualità nella polemica di questi giorni sulla lunga storia del Movimento Sociale italiano.

Per un bambino, nell’Emilia dei primi anni Cinquanta, la politica era una cosa semplificata, netta. C’erano i comunisti e gli anticomunisti. E se crescevi in una famiglia come la mia, i primi volevano la rivoluzione, toglierti la casa, distruggere la chiesa e avevano ucciso i nostri soldati in Russia, mentre gli altri – i nostri – ci difendevano da tutto ciò e gli americani erano quelli che ci avevano salvato dal disastro dell’entrata in Guerra.

“Eravamo una grande Nazione rispettata, il disastro è stata la Guerra”, diceva mio padre nelle riunioni di amici che, allora, molto spesso ricordavano le storie personali vissute sui vari fronti. Quando Trieste tornò all’Italia, i miei genitori partirono con la 1400 imbandierata dal Tricolore ed andarono là a festeggiare. E ne ho un ricordo molto vivo (e qualche spezzone di film 8 millimetri), perché la commozione e l’entusiasmo con cui partirono mi fece sentire che doveva essere una cosa molto importante e bella. Il Borghese di Leo Longanesi, il Candido di Giovannino Guareschi erano letture abituali in casa e anche lì non vi era una differenza avvertibile tra quelli che erano gli anticomunisti, per uno che aveva sei, sette anni.

Poi cominciai a distinguere e il quadro iniziò essere molto meno nitido. Con estremo stupore scoprii che mia madre, monarchica sentimentale, aveva votato per la Repubblica. “Perché?” le chiesi. Perché Alcide De Gasperi aveva detto che altrimenti ci sarebbe stata la rivoluzione, fu la risposta. E non solo lei, ma anche mio padre che, per restare fedele al giuramento al Re, era stato comandante delle Fiamme Verdi nei lunghi inverni della guerra civile. Il che voleva poi dire rischiare di essere ammazzato da due parti. E scoprii anche che l’America, nostra amica e benefattrice, era stata in guerra contro di noi ed alleata della Russia. E che dunque non avevamo fatto guerra solo all’Inghilterra.

Quando c’era casino (molto spesso in quegli anni) a casa nostra la sera venivano i dirigenti della società termale che mio padre presiedeva, il tenente dei carabinieri, il prete, mentre proprio dall’altra parte della strada, alla Camera del lavoro, le luci erano pure accese, con il sindaco e i dirigenti comunisti e sindacali, il nemico insomma. Era un po’ Peppone e Don Camillo (ma serio, purtroppo) e, d’altro canto, mio padre mi accompagnò a Brescello a vedere le riprese di un episodio della serie e ad incontrare Guareschi di cui era amico. Eppure, ogni tanto tornava a Reggio Emilia e non solo, ad incontrare i vecchi amici della Democrazia Cristiana di cui era stato segretario negli anni durissimi attorno al ’48, ma anche per partecipare a qualche raduno partigiano, dove c’erano pure i comunisti, nonostante l’avversione che nutriva per loro, riaccesa dai fatti d’Ungheria.

Cominciai a capire che le cose non erano semplici, come quando chiesi a mio padre che cosa avesse provato nel ’43 alla caduta di Benito Mussolini. “Ho pianto” mi rispose, “eri fascista?”, “no, non lo ero più, ma voleva dire che avevamo perduto la Guerra”. Dunque, l’Italia restava l’Italia, a prescindere dalle cose politiche.

Iniziai proprio allora a scoprire che c’era anche il Movimento Sociale italiano, che non era una semplice parte dello schieramento anticomunista, come credevo, ma si rifaceva al fascismo storico, che per me era solo un’epoca molto lontana e un po’ mitologica. Anche alcuni episodi familiari me lo fecero individuare. Un autista delle terme, missino sfegatato, che mi raccontava come nel golfo di Napoli, nella rivista navale del ’38, ad un cenno del duce cento sommergibili fossero emersi contemporaneamente (a me sembrò esagerato, ma controllai, era vero) e, soprattutto, il maestro Pizzati, consigliere comunale, che nella nostra scuola elementare, all’ora di ginnastica, faceva talvolta marciare inquadrati i suoi scolari al suono dell’inno della Marina suonato da un grammofono. Io, che ero di un’altra sezione, in quegli anni allietati da molti bambini, li invidiavo molto.

Intanto, crescevo e i discorsi che in casa si aggiornavano alla situazione cominciavo ad apprezzarli meglio. Insomma, perché non possiamo restare al centro, diceva mia madre, perché non abbiamo più i voti e allora è meglio aprire a destra, si sentiva rispondere. Erano gli anni di Segni e poi venne Tambroni. Mio padre capì che era un tornante decisivo e, anche se da troppo tempo fuori dalla politica attiva, fece tutto ciò che poteva per evitare la caduta del Governo. Non servì, la sinistra democristiana si unì ai laici contro Tambroni, il congresso dell’Msi non si tenne e la democrazia parlamentare fu sconfitta dalla piazza.

Cominciai allora a comprare qualche volta il Secolo – Pizzati vigilava che almeno alla cartolibreria Bonatti ci fosse sempre – sentendomi molto coraggioso per questo ed anche assaporando un po’ il fascino del proibito. Avevo tredici anni e non immaginavo che poi ci avrei anche scritto. Nel ’61 ci trasferimmo a Roma e intanto la Dc, a Napoli, apriva a sinistra. Mio padre andò fuori dalla grazia di Dio ed io reagii andando al Partito Liberale dove, aumentandomi di un anno l’età, potei iscrivermi alla gioventù liberale. Divoravo libri sul Risorgimento, sulla Rivoluzione francese, sulle due guerre e, ormai, sapevo bene cos’erano i missini e li stimavo. Ero un liberale convinto (lo sono tuttora) ma non potevo non essere attratto dalla Giovane Italia per il coraggio, perché avevano tutto contro: il numero, la grande stampa e anche l’opinione pubblica internazionale. Eppure, non badavano al loro personale interesse e neanche al pericolo. Era anche una destra occidentale, atlantica, liberista, Arturo Michelini, Gastone Nencioni, Pino Romualdi, avrebbero benissimo potuto entrare nel novero delle destre presentabili eppure, come dicevano, non volevano restaurare ma neanche rinnegare.

Erano sempre in molti, nel centro, a mantenere rapporti con la destra politica (anche perché era un centro inesistente, composto in realtà per tre quarti da gente di destra e da un quarto di sinistra) come si poté vedere per l’elezione di Segni e Leone, ma lo facevano di nascosto, negando sempre, io no. Io propugnavo apertamente la Grande Destra dentro il Pli, (ed eravamo molto pochi) e soprattutto l’applicavo nel mio ambito, come quando al liceo si formò l’alleanza dei liberali, monarchici, missini, da me guidata, con Guido Paglia e Antonio Galano, che non mi fece molto amare, ma che vinse le elezioni nella scuola – il Castelnuovo – più rossa di Roma.

La mia giovinezza fu poi simile a quella di tanti giovani affascinati dalla politica, comizietti, manifesti da attaccare (anche nella Fontana delle Naiadi, reato spero prescritto), interminabili discussioni politiche, lotte interne e anche qualche rischio fisico (sì, i giovani liberali erano molto meno bersaglio, ma anche molto più soli). C’erano però anche ardite missioni nel campo avverso, che mi portarono ad avere le prime morose, tutte di sinistra.

Comunque, i liberali non erano perseguitati, anche quando erano politicamente scorretti, anche quando parlavano, come me e Savarese a Radio alternativa di Teodoro Buontempo, dove incontrai un giovanissimo Gianfranco Fini, una quindicina d’anni prima dell’avventura di Alleanza Nazionale. Non eravamo discriminati o almeno non sempre e dappertutto. Potevamo confrontarci con i nostri coetanei di sinistra, senza essere oggetto di aggressioni praticamente scontate. Feci anche in tempo a farmi eleggere all’organismo rappresentativo universitario, l’Orur, e ad impedire, in accordo con la Caravella, che nascesse una giunta tra comunisti, socialisti, cattocomunisti e liberali di sinistra.

Poi il ’68 spazzò via goliardia ed elezioni. Militai con altri amici nella confederazione studentesca e poi in quella nazionale, ma oramai i partiti di centro cominciavano a perdere la bussola. Da Moro fino a Zanone, erano la solidarietà nazionale e l’arco costituzionale che si imponevano ed io non c’entravo proprio nulla con tutto ciò. E, d’altro canto, pure la destra stava cambiando. Il riflesso condizionato di appoggiare sempre e comunque i moderati in funzione anticomunista era sparito e, anzi, i Dc e i laici erano visti quasi peggio dei compagni. Inoltre, la facoltà di Fisica non era uno scherzo ed era assai poco compatibile col tempo perso con la politica. Decisi di laurearmi, buttandomici a corpo morto, anche se non immaginavo che quella parentesi, che pensavo breve, sarebbe durata un ventennio per effetto dei soggiorni di lavoro all’estero.

Sì, andai a sentire memorabili comizi di Giorgio Almirante, telefonai da Ginevra a tutti i politici che conoscevo, perché non appoggiassimo acriticamente l’Inghilterra contro l’Argentina, feci campagna tra gli anglosassoni per Reagan, sostenni anche la Dc per evitare il sorpasso, criticai aspramente Marino Bon Valsassina quando mi avvertì della scissione di Democrazia Nazionale, ma insomma non ero in politica e non pensavo di rientrarci, perché non mi piaceva più. Fino a quando Segni non se ne uscì col collegio uninominale, vecchio simbolo dell’Italietta risorgimentale e io mi riattivizzai, fino a scrivere un pezzo per l’Italia Settimanale in cui dicevo che se avessimo vinto il referendum, la destra sarebbe uscita dal ghetto per forza di cose, fino agli incontri con Fini, Urso, Tatarella, Bocchino, Gasparri e alla campagna per il sindaco di Roma, fino ad An.

Ma questa è un’altra vicenda, una vicenda comune, della quale Gianfranco fu un grande protagonista. No, non sono mai stato iscritto al Msi, ma non è estraneo alla mia storia, come non è estraneo alla storia degli Italiani.


di Giuseppe Basini