Ci risiamo con l’allarme democratico e con la minaccia fascista

giovedì 29 dicembre 2022


Ma quanto frigna questa sinistra. A secco di argomenti sostanziali per concorrere dai banchi dell’opposizione al bene del Paese, non trova di meglio da fare che affidarsi all’usato sicuro dell’antifascismo permanente e di Bella ciao. L’occasione gliela hanno offerta due esponenti di Fratelli d’Italia: il presidente del Senato, Ignazio La Russa e il sottosegretario di Stato alla Difesa, Isabella Rauti. Entrambi hanno voluto ricordare l’anniversario della fondazione del Movimento Sociale italiano, avvenuta il 26 dicembre 1946. Il sempiterno caravanserraglio che accoglie gli orfanelli del mito resistenziale l’ha presa male. E perciò ha chiesto le dimissioni immediate dei due dai loro incarichi istituzionali.

Di fronte a un tale patetico spettacolo verrebbe da urlare “aridatece er migliore”. Dove “er migliore” sta per Palmiro Togliatti, storico leader del comunismo italiano. Penserete che siamo impazziti a rimpiangere i tempi in cui il sodale del comunismo sovietico decideva, da vincitore, il destino della nuova Italia, sorta dalle ceneri della Seconda guerra mondiale. Invece, no. Si può parlare con rispetto di un nemico politico quando gli si riconosce una indubbia lungimiranza nel gestire una posizione di potere. È la ragione per la quale proprio non ci riesce di avere un briciolo di considerazione per i suoi epigoni, che occupano la scena politica odierna. Palmiro Togliatti fu l’artefice dell’amnistia del 1946 con cui gli antifascisti concedevano il perdono ai loro antagonisti fascisti per i crimini commessi fino al momento della Liberazione, nell’aprile del 1945. La necessità di ricostruire l’Italia dalle fondamenta prevalse sullo spirito di vendetta. D’altro canto, non sarebbe stata impresa facile riuscire a distinguere, tra gli italiani, coloro che furono fascisti per necessità da quelli che lo furono per sincera convinzione. Togliatti pensò alla pacificazione nazionale come primo atto della costruzione di una società moderna e libera dai fantasmi del passato nella quale, lui comunista, accettava che venissero democraticamente rappresentate tutte le anime e le storie politiche convissute nel Paese, dalla fondazione dello Stato unitario fino all’esito finale della Guerra. Fu questo il motivo per il quale, da ministro di Grazia e Giustizia del primo Governo di Alcide De Gasperi, non batté ciglio alla notizia della costituzione, nel dicembre 1946, dell’Msi.

Eppure, quell’atto fondativo, consumato nello studio legale del padre di Arturo Michelini, a Roma, assume un significato di rilevanza storica, se oggi i suoi eredi sono assurti agli onori della guida della Nazione. Giuseppe Tatarella così descrive l’evento per la rivista Formiche: “Un ristretto manipolo di giovani neofascisti costituì la forza politica che sarebbe progressivamente cresciuta fino a rappresentare in toto la destra nazionale italiana. Dov’è lo scandalo della celebrazione, se nessuno scandalo vi fu al momento della nascita del Movimento Sociale italiano? Al contrario, la consapevolezza del dato di realtà, per il quale una parte minoritaria della popolazione sarebbe comunque rimasta intimamente legata all’esperienza del Ventennio, portò i leader dei grandi partiti di massa a concludere che quella minoranza non avrebbe dovuto essere esclusa dal processo democratico. Fu un’intuizione profetica prosciugare i pozzi dello scontento e del desiderio di rivincita che avrebbero potuto irrigare un sentimento diffuso di revanscismo tra la popolazione. Una neonata democrazia non avrebbe potuto concedersi il lusso di tenere fuori dal proprio perimetro una porzione consistente di società.

D’altro canto, il partito che si rappresentava come erede del fascismo, dichiarandosi fin dalla nascita atlantista e filoeuropeista, accettava le regole democratiche proprie delle nazioni occidentali e di strutturarsi come partito di massa, aperto alla società, secondo il modello duvergeriano, al pari degli altri grandi partiti presenti in Parlamento. L’unico discrimine sarebbe stato riconoscersi nel dettato della Costituzione. Il Movimento Sociale italiano lo fece. Da allora, l’Msi non ha mai messo in discussione la scelta legalitaria, che lo ha condotto a restare nel solco delle istituzioni democratiche e repubblicane. La sua storia non va confusa con quella della destra radicale dei gruppuscoli rivoluzionari che diedero vita all’estremismo di destra. La suggestione eversiva non è mai appartenuta all’Msi.

Chi ricorda la storia della Contestazione e del Sessantotto sa bene quale fu la fermezza del partito nell’osteggiare ed emarginare i giovani missini che avevano visto nelle lotte studentesche un’occasione per dare una spallata al sistema della “partitocrazia”. Anche successivamente il partito non fu tenero con le tentazioni movimentiste dei circoli della nuova destra, nata sulla scia dell’esperienza della Nouvelle droite francese. Marco Tarchi, oggi stimato scienziato della politica, potrebbe raccontare molto su come il partito di Giorgio Almirante boicottò l’esperimento dei Campi Hobbit. Benché tenuto fuori del cosiddetto “arco costituzionale”, il Movimento Sociale italiano rimase sempre nell’alveo del patto democratico. Non fu facile, perché non mancò il contrasto duro con la sinistra. La politica in quegli anni veniva fatta anche con il sangue, oltre che con le idee. Ci furono scontri nelle piazze e ci furono morti, da entrambe le parti. Ma come per il Partito Comunista, anche per il Movimento Sociale la dialettica destra-sinistra non debordò mai in tentazioni di sopraffazione autoritaria.

Fu al tramonto della Prima Repubblica che si giunse a una sorta di tacita legittimazione reciproca tra la destra almirantiana e la sinistra berlingueriana. La storia successiva alla caduta del Muro di Berlino e alla fine dell’Unione sovietica ha visto il progressivo inasprimento della dialettica tra i due blocchi culturali-ideologici, della destra e della sinistra. L’occupazione dello spazio politico lasciato vuoto dal Partito Comunista italiano da parte di una classe dirigente progressista e radicata nella borghesia intellettuale ha riportato il confronto politico sul piano della negazione ontologica del nemico. La criminalizzazione dell’avversario, accentuata dall’affermarsi del modello bipolare nell’architettura istituzionale e, soprattutto, dalla comparsa sulla scena di Silvio Berlusconi – considerato dal radicalismo progressista l’archetipo del Male – ha spinto la sinistra post-comunista a battere la pista della contrapposizione irriducibile verso il nemico. E tale anomalia della dinamica democratica ce la portiamo dietro ormai da trent’anni. La vediamo in azione in queste ore, con una serie di mediocri personaggi che con grande sprezzo del ridicolo non la smettono di imbarcarsi in reprimende fuori dal tempo. Ieri l’obiettivo era Giorgia Meloni, oggi se la prendono con Ignazio La Russa e Isabella Rauti.

È questo che la sinistra si è ridotta a fare? Continuare ad aggredire l’avversario politico con l’arma impropria della superiorità morale di chi sta dal lato giusto della Storia? Quand’è che la finiremo col passato maneggiato alla stregua di una clava per colpire chi non ci piace o chi osteggia i nostri piani? Le cronache narrano di un Emanuele Fiano – ex parlamentare del Partito Democratico – indignato dalle parole di Isabella Rauti. Il pur simpatico Fiano farebbe bene a prendersela con se stesso per non essere stato in grado di comprendere le ragioni profonde della sua sconfitta elettorale, in un collegio da sempre feudo del Partito Comunista italiano grazie alla presenza di una forte componente operaia, proprio per mano di Isabella Rauti, “la nera”, figlia di Pino, fondatore nel 1956 di Ordine Nuovo e punto di riferimento indiscusso di tutte le correnti spiritualiste della destra radicale, sorte nel solco del magistero evoliano.

Siamo certi che i comunisti di un tempo avrebbero preso a sberle i piccoli leader senza nerbo della sinistra attuale. C’è un Paese che da tempo prova a suturare la ferita dell’Italia divisa dal fascismo. É un’Italia che vorrebbe passare oltre, ma che non vi riesce, per colpa di un’esigua schiera di arroganti che pensano di comandare anche contro l’evidenza della sconfitta elettorale, in nome della rendita di posizione usurpata grazie al falso mito della pregiudiziale antifascista. Proprio non ce la fanno, i “compagni”, a prendere atto della realtà. Le elezioni sono state vinte dal centrodestra trainato da Fratelli d’Italia, partito erede di quella storia politica che la sinistra odierna vorrebbe mettere al bando. Vorrà pure dire qualcosa? Se l’armata dei progressisti non vuole finire nel dimenticatoio, deve cambiare spartito. La delegittimazione del nemico politico non funziona più. E fin quando continueranno a suonare a casaccio la campanella dell’allarme democratico, Giorgia Meloni e tutti quelli di Fratelli d’Italia potranno dormire sonni tranquilli. E, perché no, sognare in grande.


di Cristofaro Sola