Qatargate: fra questione morale e questione politica

domenica 18 dicembre 2022


Continua la Qatar-history. Implacabile, come l’inarrivabile Qatargate. E con ironica crudeltà serve a dipingere la famosa frase “che se non ci fosse da piangere, verrebbe da ridere” (come commentava il Riformista). Così, detta un po’ brutalmente, alla romana, “ma che ci fai con la vicepresidente del Parlamento europeo… Sono soldi buttati. Il che vuol dire che il Qatar ce ne ha tanti, vedi i Mondiali di calcio in corso. Il Qatar ha canali d’influenza oliati, con risorse finanziarie incredibili che gli permettono di essere molto, davvero molto più potente e influente di quanto sarebbe normalmente un Paese di quelle dimensioni. Noi abbiamo visto probabilmente la punta di un iceberg. La punta se vogliamo anche più divertente perché gli effetti pratici della corruzione di un vicepresidente del Parlamento europeo e di un ex parlamentare sono meno che zero, però è significativo in quanto evidenzia le attività qatarine un giro per il mondo”.

Un giudizio articolato e motivato. Se vogliamo, un poco, ma solo un poco riduttivo, se è vero come è vero che l’effetto del Qatargate va ben oltre i confini tracciati ab origine non tanto o non solo perché irradiano, inevitabilmente, i raggi insidiosi di una operazione che nasce dall’alto, anzi dall’altissimo, ma perché questi raggi sono incrementati nella loro luminosa potenza dalla corrispondenza mediatica che li accoglie e li diffonde.

I media, appunto. Ciò che risulta palmare fin dagli esordi della versione mediatica della corruzione qatarina è la sua traduzione nella comunicazione di massa che in Italia, e soltanto qui, ne ha fatto della vicenda una nuova puntata trent’anni dopo quella della mai andata in pensione Tangentopoli. Non vi è dubbio che la questione belga abbia contiguità con quella italiana di quei tempi. E non vi è dubbio che, detto alla Immanuel Kant, la sua ragion d’essere derivi, precisamente, dalla corruzione nata e sviluppata e, in un certo senso, gestita a livelli politici.

I nostri progenitori latini, che anche di simili storie non erano all’oscuro se non addirittura vittime o protagonisti, quando volevano staccarsi brevemente dal contesto buttavano là un inarrivabile “mutatis mutandis”, che consentiva un allargamento della storia senza perderne il filo logico e, soprattutto, esemplificativo. Altrettanto e più umilmente vogliamo fare noi, per completare un ragionamento che il Qatargate suggerisce proprio nella impressionante raffigurazione che, già dagli esordi, annunciava il replay del déjà-vu, la fatale rimasticatura di un rivisto che persino nelle parole, nelle frasi, nei titoli copiavano letteralmente il già visto e il già scritto. Con quella spinta all’eccesso che, come allora, non poteva avere credibilità e nessuna pietà per il malcapitato ex parlamentare europeo del Partito Democratico.

Cosicché della vicenda, che pure è di una gravità senza precedenti per la credibilità della politica europea di per sé debole e lontana, sono mancate le riflessioni necessarie salvo commenti sopra le righe del solito pessimismo, che rivela in superficie un antieuropeismo spesso di natura campanilistica. Fra l’altro, ancora oggi non si sa con esattezza di quali reati si tratti ed è probabilmente il riflesso di una procedimento giudiziario che meriterebbe ben altre considerazioni da parte di molti osservatori mediatici, che nella loro impetuosità accusatoria non hanno avuto il tempo di fare un paragone fra l’operato di quello di trenta anni fa della Procura retta da Francesco Saverio Borrelli e quello del tribunale belga ispirato, almeno finora, alla cautela, alla prudenza e, soprattutto, al silenzio.

Non conferenze stampa quotidiane, non dichiarazioni funzionali alla visibilità, non carcerazioni per fare “cantare” gli imputati. Niente, insomma, di qual caravanserraglio micidiale con l’egida di Mani Pulite che scavalcò di slancio molte prescrizioni, stroncando carriere, partiti, vite umane. E che, infine, ha cancellato una Repubblica in nome e per conto della guerra senza quartiere alla corruzione. Una rivoluzione, come la si chiamò, una missione della guerra alla corruzione al grido medioevale di quel “Deus vult” i cui risultati, tanti anni dopo, non appaiono poi così molto migliorativi dello status quo ante.

Il fatto, come sempre, è che non si vuole prendere coscienza che si tratta di una questione essenzialmente politica. E che la questione morale, la cui bandiera viene sventolata, spesso scavalca proprio quella politica, in nome di una demagogia che serve – eccome che serve, vero Beppe Grillo? – a riempire il proprio bottino elettorale. Ma lasciando le cose come stavano.


di Paolo Pillitteri