Processare il nemico

giovedì 15 dicembre 2022


Si moltiplicano da qualche mese a questa parte le proposte di alcuni politici occidentali e di alcuni commentatori circa la necessità di sottoporre Vladimir Putin – dopo la fine della guerra in Ucraina – al giudizio di un Tribunale internazionale, allo scopo di sanzionarne le scelte più disumane, come per esempio il bombardamento di abitazioni civili o di ospedali.

Non è la prima volta che ciò accade e ancora accadrà, dal momento che il celebre processo di Norimberga, intentato contro i capi nazisti subito dopo il Secondo conflitto mondiale e alla fine del quale molti di essi vennero impiccati per crimini contro l’umanità, vive ancora nell’immaginario della opinione pubblica quale paradigmatico esempio di affermazione delle ragioni della giustizia contro la barbarie.

Tuttavia, è lo stesso processo di Norimberga ad aver sollevato molte perplessità in ordine alla sua legittimità in punto di diritto.

Basti pensare come il collegio giudicante fosse composto esclusivamente dai vincitori e come in proposito Hans Kelsen, il quale, di origini ebraiche, era fuggito dalla Germania nazista riparando negli Stati Uniti, riconosciuto fra i più grandi giuristi del suo tempo, affermò che esso avrebbe dovuto essere composto in forza di un apposito trattato internazionale del quale dovevano esser parte anche i vinti: cosa che non era.

Si aggiunga che il presidente della Corte Suprema degli Usa, Harlan Fiske Stone, bollò il processo come una vera frode, dal momento che gli alleati stavano facendo alcune delle cose che rimproveravano ai tedeschi e che infine uno dei giudici, il sovietico Iona Nikitchenko, era stato componente dei collegi giudicanti delle grandi purghe staliniane degli anni Trenta, una sorta di boia protetto dalla toga: un criminale che giudicava altri criminali.

Ne viene che quel processo non può costituire in alcun modo un modello di riferimento giuridicamente credibile per il nostro tempo.

Anzi, esso sollecita una riflessione rilevante in sede politica e giuridica: non sarebbe ora di finirla con questa storia del nemico che viene trasformato in imputato e giudicato dai vincitori?

Nemico ed imputato esprimono infatti realtà strutturalmente divergenti e per nulla sovrapponibili: come l’imputato non è mai un nemico – e guai se lo divenisse! – allo stesso modo questo non può mai assumere le fattezze del primo – e guai quando accade! – se a giudicarne l’operato sono i vincitori.

Non per nulla Simone Weil annotava che “la giustizia, inorridita, fugge dal campo dei vincitori”, proprio per significare come ogni tentativo di chi abbia vinto di condurre gli sconfitti sui banchi di un Tribunale costituisca una grave offesa alle ragioni della giustizia, la quale appunto ne rimane “inorridita”.

A meno che anche gli sconfitti abbiano parte – come notava Kelsen – nell’istituire il processo, nel condurlo, nel giudizio finale, cosa tuttavia di cui oggi nessuno fa il minimo cenno.

Ci troviamo così davanti non solo a un problema storico-politico, ma perfino antropologico, dal momento che – come ha scritto San Paolo nella sua celebre invettiva contro i giudici – per giudicare gli altri bisogna aver prima condannato se stessi.

Per questo motivo, al di là di ogni altra osservazione, permane la sgradevole sensazione che questa insistenza che da più parti si manifesta sulla esigenza di processare il nemico sconfitto non sia che il malriuscito tentativo di legittimare i vincitori dallo scranno di un Tribunale, quasi temessero di non reperire altra via per ottenere quello scopo.

Bisognerebbe dunque che il nemico vinto sia trattato da nemico e non da imputato; che i prigionieri siano trattati da esseri umani prigionieri e non da detenuti sospettati di gravi delitti; che siano liberati, trattenuti o perfino scambiati per ciò che in effetti sono – prigionieri di guerra – e non per ruoli che non possono rivestire, così come è sempre stato nella storia.

Bisognerebbe insomma ricordare le sagge parole di Carl Schmitt: “L’abolizione della differenza fra nemico e criminale ha distrutto non solo il diritto, ma anche la giustizia come ordinamento concreto”.

Anche perché i processi non sempre chiudono i conti con la storia: spesso li lasciano aperti.

(*) Tratto dal quotidiano La Sicilia


di Vincenzo Vitale