Il bubbone della spesa corrente

martedì 15 novembre 2022


In tema di misure economiche, il Governo di destra-centro si trova ad affrontare un sentiero ancor più stretto rispetto a quello di chi lo ha preceduto. Con l’inevitabile tendenza a un aumento planetario del costo del danaro, a cui non potrà sfuggire neppure la Banca centrale europea, una certa disciplina di bilancio non potrà più essere un optional, così come si raccontava ai tempi della maggioranza giallo-verde.

Basta osservare l’andamento del Btp decennale, sul quale si calcola il famigerato spread, per comprendere che le tanto auspicate manovre espansive, antico cavallo di battaglia dei keynesioti di ogni colore, sono oramai giunte alla frutta. L’inflazione ha cominciato a erodere pesantemente il potere di acquisto dei cittadini, penalizzando come sempre in questi casi i ceti più poveri, e la strada di aggiustare i conti pubblici attraverso continue inondazioni di liquidità creata dal nulla non sembra più percorribile.

Ergo, ciò significa che l’unico modo per tacitare i dubbi crescenti di chi continua a prestarci i quattrini è quello di tranquillizzare i mercati circa la sostenibilità del nostro colossale debito pubblico, che ha ampiamente superato il 150 per cento del Pil. E come si tranquillizzano gli investitori interni ed esteri? Semplice: occorre dimostrare che il nostro sistema economico nel suo complesso è in grado di estrarre sufficienti risorse per pagare regolarmente – e in un tempo indefinito – i relativi interessi.

Ma per farlo, venendo a bomba, bisogna evitare che il medesimo debito si avviti su se stesso, a causa di una crescita inaspettata del costo complessivo di detti interessi, che costringa le nostre autorità finanziarie a chiedere nuovi prestiti solo per farvi fronte. Dunque, diventa prioritario contemperare qualunque misura per sostenere lo sviluppo con la necessità di tenere sotto controllo una spesa pubblica che, nel 2021, ammontava al 55,3 per cento del Pil.

Ora, rispetto ad altri Paesi con un analogo livello di spesa pubblica, l’Italia è da sempre caratterizzata da una maggiore percentuale della parte corrente, a scapito della spesa per investimenti. In pratica, spendiamo troppo e male per stipendi e vitalizi – il nostro welfare assorbiva il 45 per cento della spesa pubblica prima della pandemia – e poco per ammodernare e rendere più competitivo il Paese. A tutto questo, poi, sembra aver dato il colpo di grazia una crisi energetica che, soprattutto per una economia di trasformazione come la nostra, ha messo ancor più in evidenza la fragilità italiana. Ciononostante, sia dall’interno della maggioranza e sia dalle cosiddette parti sociali cresce la pressione sull’Esecutivo per allentare ulteriormente i cordoni della borsa, aumentando le pensioni in essere e anticipandone di nuove, tagliando il cuneo fiscale per incrementare i salari e realizzando la mitica flat tax e, dulcis in fundo, aiutando famiglie e imprese con un robusto sostegno economico per pagare le bollette.

Ed ancora una volta mi vengono in mente le parole sempre attuali di Ferdinando Martini, che ai tempi fu governatore dell’Eritrea: “Chi dice che gli italiani non sanno quello che vogliono. Su certi punti, anzi, sono irremovibili. Vogliono la grandezza senza spese, le economie senza sacrifici e le guerre senza morti. Il disegno è stupendo, forse è quasi impossibile da effettuare”.


di Claudio Romiti