Energia nucleare? Sì, prego!

sabato 12 novembre 2022


La scienza e il buon senso possono, anzi debbono, camminare assieme. La scienza però la fanno gli scienziati coi loro laboratori, i loro studi, il loro rigoroso metodo scientifico, non le ragazzine che si sentono in missione, i comitati politicizzati o sorti dal nulla, gli esaltati che imbrattano i quadri. Mentre il buon senso debbono mettercelo i politici, che devono decidere dopo aver ascoltato i primi e non assecondato i secondi, anche se questi ultimi hanno un linguaggio mediaticamente efficace perché drammatico e immediato, mentre i primi coltivano metodicamente il dubbio, finché non arrivano a delle serie conclusioni comprovate e consolidate.

Eppure, spesso, si cade nella pericolosa demagogia dei fanatici. L’abbiamo visto già tante volte nella storia, per antichi interessi o infatuazioni ideologiche, dalla caccia alle streghe al processo a Galileo. Dalle violente manifestazioni luddiste contro i telai meccanici alla legge che prevedeva che le prime automobili dovessero marciare precedute da un pedone con una bandiera rossa, fino all’ironica petizione di Frédéric Bastiat sui “fabbricanti di candele”: il problema della corretta considerazione dello sviluppo scientifico nelle valutazioni del potere politico e nelle inclinazioni culturali delle società si è posto infinite volte nel tempo.

L’abbiamo rivisto recentemente con le rabbiose opposte tifoserie sul Covid, che pretendevano immediati e risolutivi provvedimenti su di un virus completamente nuovo e mutante, che però solo adesso abbiamo faticosamente iniziato a conoscere veramente. Oggi, sugli effetti per l’ambiente complessivo dello sviluppo industriale e soprattutto dell’energia è troppo presto per dire, con sicurezza scientifica, se il riscaldamento globale che si osserva sia davvero un fatto nuovo o non il ripetersi ciclico di epoche più fredde seguite da altre più calde. E ancor di più per stimare quanto sia l’effettivo contributo percentuale dell’attività umana.

Il cosiddetto contributo antropico, derivante dall’effetto serra principalmente dovuto alla produzione termica di ossidi di carbonio, è infatti contestato nelle sue effettive dimensioni relative, perché ai non pochi che, specie a livello politico, sostengono a spada tratta nel mondo le teorie più preoccupate, si oppongono con numeri e statistiche anche molti ricercatori qualificati di parere opposto, in gran numero anche da noi come, per citarne due, Franco Battaglia o Renato Angelo Ricci. E allora gli interventisti più decisi si appellano al principio di Precauzione, che sostanzialmente propone – nel dubbio – di fare come se le ipotesi più gravi fossero già comprovate, solo che lo applicano settorialmente e non fino in fondo. Lo applicano settorialmente, perché prendono in esame solo i costi e le vittime di un grave riscaldamento globale senza esaminare, con la stessa scala, anche i costi e le vittime di una crisi energetica, agricola e industriale. E poi non lo applicano fino in fondo, perché semplicemente non prendono in concreto esame la più efficace delle fonti di energia priva di effetto serra: l’energia nucleare.

Praticamente, tutte le forme di generazione di energia hanno un impatto ambientale. Bruciare gas produce ossidi di carbonio, petrolio e biomasse ci aggiungono altri prodotti nocivi e il carbone ancora di più. Le idroelettriche sono le più rispettose ma sconvolgono il circondario con i loro invasi e i siti più promettenti sono spesso già utilizzati. Le eoliche e fotovoltaiche comportano un grave consumo di territorio, poca resa e grandi produzioni industriali di manufatti. L’idrogeno, a parte la sua pericolosità, non è una fonte primaria, perché va prima a sua volta prodotto con una delle altre fonti. Anche il risparmio energetico ha un costo ecologico, perché la scarsità di energia determina meno fondi per gli impianti di riciclaggio, le riconversioni industriali, i depuratori, gli ospedali, i parchi nazionali.

Oggi come oggi la fonte più ecologicamente conveniente è l’energia nucleare. Non emette anidride carbonica, non consuma territorio e, trasformata in energia elettrica, è altamente concentrata e trasferibile con poche dispersioni. E ormai può essere concepita con nuovi reattori progettati a sicurezza intrinseca e con reattori autofertilizzanti, capaci cioè di auto-trasformare, a differenza di oggi, in materiale fissile (e cioè utilizzabile) tutto l’uranio immesso, aumentando moltissimo la durata delle riserve oltre a ridurre le scorie radioattive. Scorie che, peraltro, essendo concentrate e non disperse, sono molto più facilmente contenibili di ogni inquinamento volatile che si espanda dappertutto. Ma anche i reattori già commercializzati restano un’ottima soluzione perché, nonostante l’energia nucleare sia in uso ormai da sessant’anni e oggi si contino quasi cinquecento centrali nucleari nel mondo, gli incidenti gravi (anche se dipinti molto catastroficamente) sono stati pochi e compatibili, per effettiva gravità globale, con i rischi inerenti a tutte le grandi iniziative energetiche o industriali. Mentre ancora non possiamo realmente contare sull’energia da fusione che, sebbene in prospettiva sarà probabilmente la soluzione definitiva, è ancora abbastanza lontana (qualche decennio) dal poter dare un significativo contributo.

Anche il problema dei tempi di realizzazione è in gran parte legato a scelte politiche, perché molti ritardi sono dovuti spesso ad un’inutile complessità dell’iter delle autorizzazioni. Ciò detto, vediamo di applicare il buon senso politico ad un problema che non solo è centrale per lo sviluppo del pianeta, ma è diventato anche urgente per il peggiorare di crisi politiche che stanno condizionando e altamente deprimendo il mercato dell’energia. Assodato che di energia, volendo, ne possiamo avere quanta ne vogliamo (anche col solo carbone come unica fonte, ne avremmo per ben più di altri due secoli almeno) e quindi possiamo scegliere, dobbiamo partire da un punto fondamentale: mentre il positivo risultato di energia abbondante e a buon mercato – di qualunque origine – è cumulabile, gli aspetti negativi delle varie fonti (gas serra, scarichi inquinanti, consumo di territorio, scorie, scarsezza, dislocazioni in aree pericolose o instabili, costi, elevato consumo di manufatti ) sono diversi e in generale non sommabili, per cui un mix tra loro massimizza il risultato e minimizza i rischi.

Un ricorso, privo di pregiudizi ideologici, a una diversificazione delle fonti è dunque la migliore politica energetica, sia in rapporto alla conservazione dell’ambiente, che all’indipendenza e alla convenienza economica. La Francia, ad esempio, il Paese europeo che più di tutti rispetta gli obbiettivi europei di decarbonizzazione e indipendenza energetica, è oggi molto libera nelle sue scelte politiche, grazie agli oltre 50 reattori nucleari convenzionali, mentre Italia e Germania anche a voler aumentare il più possibile il contributo delle cosiddette rinnovabili (poco efficienti e molto costosamente incentivate) non potranno evitare anche in futuro un forte ricorso alle fonti fossili di gas, petrolio e carbone, se non riaprono rapidamente al nucleare. E saranno così costrette a non rispettare gli obiettivi di decarbonizzazione e a venire a patti con potenze ostili e pregiudicare il loro sviluppo.

All’origine del pregiudizio antinucleare, oltre all’inconscia paura del nuovo sconosciuto potere, vi fu anche la sotterranea campagna organizzata dall’inizio contro le centrali dagli enormi interessi in campo petrolifero, che trovò tanti incauti che, invece di fare campagne contro le bombe, si accanivano contro la parte positiva delle nuove scoperte, cioè l’energia per usi civili. E questa campagna attecchì in grandi fasce di popolazione. Alla vigilia del referendum antinucleare italiano, quando cittadini spaventati e del tutto ignari del problema tecnico furono chiamati a votare al buio, un giovane fisico, non cointeressato in nessun modo all’industria dei reattori, fu chiamato a scrivere un documento esplicativo sulle ragioni del nucleare in una affollata riunione di vertice dell’allora Democrazia Cristiana, in un ufficio di largo Nazareno, a Roma, dove erano presenti parecchi degli esponenti Dc interessati, tra cui Beniamino Andreatta, Silvia Costa, Bartolo Ciccardini, Giuseppe Petrilli e tanti altri deputati.

Il giovanotto si mise al lavoro e preparò un elaborato di una trentina di pagine in cui con linguaggio preciso, ma il più possibile chiaro, si elencavano le ragioni a favore del nucleare italiano e, dopo circa un mese, portò come concordato il risultato alla Spes della Dc. Qui incontrò la responsabile nazionale, una delle più intelligenti e preparate dirigenti della Dc di allora, trovandola però oltremodo imbarazzata, perché come più o meno ebbe a dire: noi saremmo a favore del nucleare, ma il segretario nazionale ritiene che il rischio politico sia troppo grande e nella fretta, purtroppo, abbiamo dimenticato di comunicartelo. Come faccio a saperlo? Il malcapitato ero io. E così l’Italia scomparve totalmente da un settore all’avanguardia in cui pure, negli anni Sessanta, eravamo stati, grazie anche all’industria privata dell’energia elettrica, nei primissimi posti mondiali.

L’attuale Governo italiano fa benissimo a muoversi cautamente, a cercare prima una chiara legittimazione internazionale, a fare una politica dei piccoli passi. Ma non potrà, presto o tardi, evitare uno scontro se vuole cambiare davvero le cose, proprio allo stesso modo che Margaret Thatcher non poté evitare la lunghissima battaglia coi sindacati dei minatori. Perché adesso in Italia, per migliorare le cose, bisogna davvero invertire la rotta, dall’eccesso di tassazione all’eccesso di regolamentazione, dalla giustizia ingiusta alla proprietà minacciata. E l’energia è uno di quei problemi che condizionano tanto la nostra prosperità che la nostra indipendenza. Lo scontro è probabilmente inevitabile e prima o poi ci sarà. Ma oggi, comunque, non utilizzare l’energia nucleare è un vero e proprio misfatto, contro la povertà e contro la natura.


di Giuseppe Basini