Ergastolo ostativo: la Consulta che straripa

giovedì 10 novembre 2022


“La Terza Camera”

Da anni, la Corte costituzionale ha inaugurato una particolare tipologia di decisioni: le “decisioni di incostituzionalità differita”.

Normalmente, la Corte, se ritenga la illegittimità costituzionale di una norma, la dichiara, abrogandola immediatamente: quella norma cessa di far parte dell’ordinamento giuridico e ne cessano gli effetti.

Questo è ciò che prevede la Costituzione e che prescrive la legge istitutiva della Corte: nulla di più e nulla di meno.

Nel caso invece della “decisione di incostituzionalità differita”, la Corte dichiara la incostituzionalità di una certa norma, ma blocca gli effetti abrogativi che ne dovrebbero derivare per un certo tempo (un anno o più) esortando il Parlamento ad intervenire allo scopo di evitare la caducazione della norma, seguendo le indicazioni fornite dalla stessa Corte.

Evidentemente, la Corte considera ragioni di opportunità prevalenti sulla esigenza di eliminare la norma istantaneamente.

I benpensanti – coloro che pensano con la testa altrui – trovano ovvia questa procedura, senza avvedersi dei problemi enormi che invece essa suscita.

So bene che la Corte, nel nostro sistema, partecipa della funzione “normogenetica”, cioè alla produzione delle norme, istituzionalmente riservata al Parlamento e al Governo, anche quando opera in modo fisiologico: anche la semplice abrogazione di una norma, infatti, modifica il quadro normativo in modo radicale.

E fin qui, siamo nei limiti del consentito. Lo siamo anche, sia pure con sofferenza, nel caso di decisioni “additive”, allorché la Corte si spinge fino al punto di aggiungere parole ai testi normativi allo scopo di evitarne la caducazione.

Non siamo più invece nei limiti consentiti (anche la Consulta incontra dei limiti) in casi come questo, oggi venuto alla ribalta per l’ergastolo ostativo. Cosa è infatti accaduto?

Circa due anni fa la Corte giudica illegittima la norma che vieta i benefici penitenziari agli ergastolani per reati di mafia che non abbiano collaborato con gli inquirenti; tuttavia, la lascia sopravvivere, concedendo a Governo e Parlamento un anno di tempo (poi diciotto mesi) per apportare modifiche ad impedirne la caducazione. Il termine fissato scade fra pochi giorni e dunque il nuovo Governo scodella un decreto con un testo nuovo che, seguendo le istruzioni della Corte, dovrebbe scansare ogni censura.

Tutto bene? No. Tutto male, malissimo: un horror istituzionale e giuridico, al quale i giuristi, ormai avvezzi ad ogni mostruosità, dovrebbero ribellarsi per almeno tre buoni motivi.

Il primo. Operando da tempo con questa disinvoltura istituzionale, la Consulta, ritenendosi al di sopra della stessa Costituzione, la quale non si è mai sognata di attribuirle tali facoltà in spregio alla divisione dei poteri, si propone quale Terza Camera accanto a Camera e Senato; e, per di più, Camera Alta, anzi Altissima, in quanto fornisce indicazioni vincolanti alle altre due che si sentono tenute a seguirle, pena la caducazione delle norme altrimenti approvate.

Qui, lo Stato di diritto va a ramengo, perché un organo giurisdizionale quale la Consulta, profittando di fatto di una partecipazione fisiologica all’attività di produzione di norme, la alimenta a dismisura fino a sovrapporsi alle assemblee legislative.

Il secondo. A che titolo far sopravvivere nell’ordinamento giuridico una norma dichiarata incostituzionale, congelandone la caducazione in attesa che il Parlamento e il Governo provvedano?

Così la Corte fornisce di un inedito lasciapassare giuridico una norma già bollata come illegittima, per il tempo che essa stessa stabilisce, a suo insindacabile piacere.

Qui, lo Stato di diritto va ancor di più a ramengo, perché la Corte, vittima di un delirio di onnipotenza, si ritiene assurdamente legittimata a ciò che nessuno potrebbe: far sopravvivere per il tempo che desidera una norma già dichiarata morta. Una norma incostituzionale cui si consente volontariamente di produrre effetti giuridici come nulla fosse: un morto vivente, uno “zombie” giuridico che offende le istituzioni e la compagine sociale.

Il terzo. Come si fa a dire ad un ergastolano che la norma che gli inibisce i benefici è incostituzionale e che tuttavia egli deve portar pazienza per un paio d’anni, il tempo necessario per trasformarla in norma legittima?

Una perversione giuridica e umana! Anche perché la mancata collaborazione dell’ergastolano potrebbe dipendere dal semplice fatto che egli sia innocente e condannato ingiustamente: lo Stato di diritto è quello che in linea di principio ammette tale possibilità, perché ammette di poter essere nel torto.

Qui, a ramengo andiamo tutti noi. Accompagnati per mano da una Consulta ormai fuori controllo e da una coorte di giuristi che preferiscono tacere. Perché?


di Vincenzo Vitale