Arcore, abbiamo un problema

mercoledì 9 novembre 2022


La signora Letizia Moratti ha annunciato la sua candidatura alla presidenza della Regione Lombardia. La sosterrà il Terzo polo della coppia Carlo Calenda- Matteo Renzi. Al momento, non è dato sapere come reagirà il Partito Democratico. Intanto, le sue articolazioni locali hanno respinto al mittente l’offerta di Carlo Calenda di costruire intorno alla figura di Letizia Moratti un fronte unico (senza i Cinque Stelle) anti-centrodestra. Non vi è dubbio che la candidatura da outsider di Moratti irrompa nella campagna elettorale lombarda provocando scossoni, sia a destra sia a sinistra. La rottura del classico schema bipolare, che si attaglia perfettamente alle caratteristiche delle leggi elettorali regionali, rende incerto l’esito finale del voto. Quello che sembrava un risultato scontato – la vittoria del centrodestra con Attilio Fontana – adesso non lo è più. Di certo, c’è solo che uno tra i candidati più accreditati alla vittoria – a questo punto dovrebbero essere tre – la spunterà al fotofinish, per una manciata di voti. Nulla di cui preoccuparsi, è la normale dinamica democratica che si attiva in una competizione elettorale.

Ciò che di negativo invece restituisce la fotografia di una Moratti campionessa di neocentrismo, attiene al destino ultimo di Forza Italia. Il fattore destabilizzante per la qualità della politica italiana in generale è nel profilo curricolare della signora Moratti. Benché lei provenga dai ranghi dell’alta borghesia imprenditoriale lombarda, spesso incline a un civettuolo entusiasmo per il progressismo, la sua candidatura non la si può definire propriamente “civica” o emanazione della società civile. Letizia Moratti ha un trascorso politico-istituzionale di tutto rispetto ma totalmente sviluppatosi nell’alveo dell’organizzazione partitica berlusconiana. La sua storia politica s’intreccia a doppio filo con le fortune dei governi Berlusconi. É stata presidente della Rai dal 1994 al 1996 durante il primo Governo Berlusconi; ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca scientifica dall’11 giugno 2001 al 17 maggio 2006 nei governi Berlusconi II e III; sindaco di Milano, in quota centrodestra, dal 5 giugno 2006 al primo giugno 2011. Dopo un periodo di allontanamento dall’agone politico, è ritornata in prima linea l’8 gennaio 2021 in piena emergenza pandemica, accettando, su indicazione di Silvio Berlusconi, la nomina ad assessore al Welfare e vicepresidente della Regione Lombardia in sostituzione dei dimissionari Giulio Gallera e Fabrizio Sala. Incarichi che ha ricoperto fino allo scorso 2 novembre. Meno di una settimana è bastata per farle compiere il salto della staccionata e candidarsi in contrapposizione a quel centrodestra a cui è appartenuta per quasi trent’anni e dal quale ha ricevuto onori e prestigio.

Circa la sua inelegante defezione, potremmo metterla sul piano morale, ma non è il caso. Mettiamoci in testa una volta per tutte che in politica la parola gratitudine non ha cittadinanza. Chi compie scelte discutibili, se ne assume la responsabilità. Riguardo a donna Letizia, saranno gli elettori lombardi a giudicare, in ordine all’affidabilità, se il grado di competenza che le viene riconosciuto faccia premio sullo scarso livello di coerenza dimostrato. Il problema è altrove. Il suo voltafaccia pone una gigantesca questione di qualità della classe dirigente di Forza Italia. Il vulnus non è nel comportamento di Moratti in sé, ma nel fatto che dagli accadimenti politici del 2011 in poi tutti o quasi gli appartenenti a Forza Italia, designati a ricoprire incarichi di Governo o di Amministrazione nelle principali realtà regionali e locali italiane, abbiano disertato dal campo berlusconiano. È accaduto nel 2013 con la pessima pagina del Governo Letta. In quella circostanza, pur di dare un Governo al Paese in assenza di maggioranze politicamente definite, Silvio Berlusconi decise di scendere a patti con il Partito Democratico. Ne nacque un Esecutivo bipartisan che prevedeva la presenza di un’ampia pattuglia di esponenti dell’allora Popolo della Libertà. Angelino Alfano, vicepresidente del Consiglio dei ministri e ministro dell’Interno; Beatrice Lorenzin, ministro della Salute; Maurizio Lupi, ministro delle Infrastrutture e dei trasporti; Nunzia De Girolamo, ministro dell’Agricoltura; Gaetano Quagliariello, ministro per le Riforme istituzionali.

Nel novembre dello stesso anno, quando era apparso chiaro che il Pd avrebbe usato la “legge Severino” per estromettere Silvio Berlusconi dal Senato, la pattuglia dei ministeriali del Popolo della libertà, presagendo la possibilità che Berlusconi avrebbe fatto cadere il Governo, organizzò la scissione dal Pdl e la contemporanea nascita del “Nuovo centrodestra” (Ncd) il cui compito, oltre a mantenere i ministri ai loro posti, fu quello di garantire alla sinistra di tenere il potere per l’intera legislatura, prima con il Governo Letta e poi con quello Renzi. Insieme ai ministri, tutti i viceministri e i sottosegretari designati dal Popolo della Libertà cambiarono repentinamente casacca in barba al mandato che avevano ricevuto dagli elettori. Le sole eccezioni furono Michaela Biancofiore e Gianfranco Miccichè che non abbandonarono il “Cav”.

Più recentemente la storia si è ripetuta con il Governo Draghi. Dei tre ministri in quota Forza Italia – Renato Brunetta, Mariastella Gelmini, Mara Carfagna – nessuno è rimasto con Berlusconi. Il primo ha avuto il buon gusto di lasciare la politica, le altre due si sono accasate nel Terzo polo. Oggi è la volta di Moratti. Non può essere una coincidenza e neppure un’epidemia d’ingratitudine a spingere i gratificati dal capo assoluto a voltargli le spalle, una volta ottenuti i vantaggi desiderati. Esiste un evidente problema di formazione della classe dirigente in Forza Italia che non può più essere nascosto. Il vecchio leone di Arcore di cose buone ne ha fatte tante. Ma non tutte le ciambelle gli sono riuscite col buco. Quelle dell’individuazione degli esponenti del suo partito per ricoprire le massime cariche istituzionali sono fallite clamorosamente. Berlusconi ha voluto imprimere al suo partito un’impronta aziendalista ritenendo che il modo migliore per garantire qualità e competenza alla guida del Paese fosse la cooptazione dei profili da lui individuati. Per la formazione dell’élite forzista non ha mai creduto, lui sincero democratico, alla validità dei meccanismi selettivi attivati dal basso all’interno del partito. Le conseguenze di un tale macroscopico errore sono state devastanti per la tenuta del consenso della più grande formazione liberale che la Repubblica italiana abbia conosciuto.

D’altro canto, vi sarà un motivo se Forza Italia nella sua versione allargata di Popolo della Libertà nella tornata elettorale del 2013, nonostante la guerra giudiziaria fatta al suo leader e il modo violento con il quale il legittimo Governo di centrodestra era stato defenestrato nel 2011, per la Camera dei deputati raccoglieva ancora 7.332.134 voti (21,56 per cento) mentre alle Politiche del settembre scorso la ridotta berlusconiana si è attestata all’8,11 per cento dei consensi con 2.278.217 voti ottenuti. La gracilità della struttura partito, l’inaffidabilità della sua classe dirigente, l’incapacità a comprendere il profondo radicamento a destra del suo elettorato naturale, sono sicure concause del crollo di Forza Italia. Si potrebbe obiettare che trattasi di questioni interne al movimento berlusconiano che non hanno incidenza sugli andamenti della coalizione. Niente di più sbagliato. La complessità nella guida della coalizione di centrodestra, che regge da trent’anni, sta nell’assorbire le spinte prodotte dalla dialettica dalle componenti che agiscono al suo interno. Se sciaguratamente una di tali forze dovesse sfuggire alla regolazione degli equilibri dinamici intra-coalizionali, le ripercussioni ricadrebbero sulla tenuta stessa della maggioranza, e quindi del Governo.

Al riguardo, l’esempio del voltafaccia di Letizia Moratti è paradigmatico. Il vecchio leone non può fingere che non sia accaduto nulla e che il problema della fedeltà della classe dirigente forzista non esista. Deve, perciò, mettervi mano seriamente e trovare una soluzione che valga per il presente e per il futuro. Non è pensabile che una quota di elettorato liberale e riformista, che sente di appartenere alla destra, non possa più avere un riferimento partitico che la rappresenti e debba rassegnarsi all’idea che i suoi voti finiscano in dote alla sinistra. Già, perché votare per il Terzo polo è come decidere di essere diversamente di sinistra. Il vecchio leone rifletta sulla possibilità di lasciare ai posteri una struttura partitica organizzata su basi democratiche e che, pur riconoscendosi nel pensiero e nella storia politica e personale del suo leader, sappia e possa camminare sulle proprie gambe. Questo sì che sarebbe l’ultimo coniglio tirato fuori dal cilindro da un grande mago. Già, il mago Silvio da Arcore.


di Cristofaro Sola