Qualcosa sul discorso di Giorgia Meloni

giovedì 27 ottobre 2022


Il discorso alle Camere di Giorgia Meloni ci ha restituito una visione di un’Italia a immagine della destra. Eppure, i suoi detrattori l’hanno attaccata giudicandone l’intervento generico e privo di soluzioni immediate. E da quando il discorso del premier che apre la legislatura deve essere derubricato a “lista della spesa”? È roba da Governi tecnici elencare le cose da fare in nome di un’emergenza che nell’Italia dell’ultimo decennio è diventata condizione permanente. Il presidente Meloni ha spiegato che nulla verrà lasciato al caso. E ciò, dopo gli anni grigi dell’improvvisazione grillina, ci conforta. Le fondamenta della società governata dalla destra sono state posate. Se è vero che le parole sono pietre, quelle contenute nelle nuove denominazioni di alcuni ministeri indicano la strada che il Governo Meloni batterà per raggiungere gli obiettivi prefissati. Non resta che attendere il tempo in cui le dichiarazioni programmatiche si evolveranno in azione di Governo.

Restando all’oggi, pensiamo che Giorgia Meloni nella sua prima volta in Parlamento da presidente del Consiglio dei ministri abbia segnato un punto. È il senso complessivo del suo discorso che ha convinto. Il premier era atteso al varco sul tema dei rapporti internazionali con i leader stranieri ideologicamente affini, a cominciare dal vituperato Viktor Orbán. Qualcuno ha scommesso che sarebbe rimasta schiacciata tra la difesa della democrazia liberale d’impianto occidentale e le suggestioni populiste della democrazia illiberale. Giorgia Meloni ha imboccato una terza via riscoprendo il concetto di “democrazia decidente”. Cosa vuol dire in concreto? Rivendicare, in quanto maggioranza politica diretta espressione della sovranità popolare, il diritto/dovere a governare per l’intera legislatura “facendolo al meglio delle nostre possibilità, anteponendo sempre l’interesse dell’Italia a quello di parte e di partito”. Basta col malcostume del trasformismo parlamentare che tradisce la sacralità del mandato di rappresentanza del corpo elettorale, con l’immobilismo indotto da una politica succube di interessi frammentati, con una classe dirigente che non si cura del bene della nazione ma esclusivamente di perpetuare il proprio potere.

L’equazione di Governo della Meloni è strutturalmente elementare ma concettualmente rivoluzionaria: le forze politiche chiamate a guidare il Paese costruiscono e, alla scadenza naturale del mandato, gli elettori giudicano. Meloni non vuole trovarsi nelle condizioni nelle quali si ritrovò Silvio Berlusconi. Il vecchio leone di Arcore che, per giustificare le promesse mancate nei suoi anni alla guida dell’Italia, scaricò la responsabilità del fallimento sugli alleati e sui loro veti incrociati. Con Giorgia non accadrà. Lo ha detto in occasione del passaggio sulle modifiche dell’architettura costituzionale anche alle opposizioni e tra esse a chi maggiormente auspica una caduta ravvicinata del suo Governo per ritornare agli antichi fasti degli Esecutivi di unità nazionale. Delle forme possibili di presidenzialismo la maggioranza ne discuterà con le opposizioni per trovare insieme la migliore soluzione. “Ma sia chiaro – avverte Meloni – non rinunceremo a riformare l’Italia di fronte ad opposizioni pregiudiziali. In quel caso ci muoveremo secondo il mandato che ci è stato conferito su questo tema dagli italiani: dare all’Italia un sistema istituzionale nel quale chi vince governa per cinque anni e alla fine viene giudicato dagli elettori per quello che è riuscito a fare”.

Questa è “democrazia decidente”. Sbaglia chi pensi che la declinazione della forma democratica a cui intende ispirarsi la Meloni sia l’anticamera di un nuovo autoritarismo, non necessariamente compiuto nella forma folcloristica della camicia nera e del saluto romano. Ma neanche sia il preludio all’“eterno ritorno” del pensiero omologante del mito resistenziale e della retorica dell’antifascismo militante a oltre settant’anni dalla caduta del Fascismo. Riguardo alla ricerca delle radici ideali, Giorgia Meloni compie un salto nel passato scavalcando a piè pari il Novecento per agganciare la sua svolta conservatrice alla costruzione dell’Unità d’Italia. I riferimenti all’epopea risorgimentale, echeggiati anche nelle citazioni di due grandi donne protagoniste di quella stagione: Cristina Trivulzio di Belgiojoso, “elegante organizzatrice di salotti culturali e barricate” e Rosalie Montmassontestarda al punto da partire con i Mille che fecero l’Italia”, ne confermano il riposizionamento ideale e culturale. Ma richiamare il Risorgimento significa soprattutto rinverdire la memoria di quella destra classica che fu protagonista negli eventi che condussero all’Unità d’Italia. Scelta di grande intelligenza politica disancorarsi dalla scomoda eredità del “nostalgismo” fascista che fu parte del patrimonio del Movimento Sociale Italiano e riannodare i fili identitari al presupposto risorgimentale della fondazione dello Stato unitario, proponendosi come punto di congiunzione tra un passato del quale non c’è da vergognarsi e un futuro che merita di riconoscersi in una storia nazionale da esibire con orgoglio. Queste le sue parole: “E lo dobbiamo all’Italia, che il 17 marzo di 161 anni fa è stata unificata dai giovani eroi del Risorgimento e oggi, come allora, è dall'entusiasmo e dal coraggio dei suoi giovani che può essere risollevata”.

Il discorso di Meloni non è stato di retroguardia ma si è spinto ad aggredire la sinistra sul suo terreno tradizionale, benché abbandonato da tempo: la difesa delle classi disagiate. Per farlo, il premier ha offerto la sua storia personale con il medesimo intento mistico di chi offre il proprio corpo per trasmettere una verità rivelata. Raccontandosi si è definita un “underdog”, una sfavorita. Perché l’ha fatto? La sinistra dei “giornaloni”, sull’orlo di una crisi di nervi, l’ha letta come una manifestazione di populismo. Invece, quell’“underdog” scodellato con sobria commozione nel mezzo del tempio della democrazia, nel quale gli ultimi fanno fatica ad avere cittadinanza, è più simile a una testimonianza sulla fiducia che l’individuo deve acquistare credendo in se stesso. Giorgia è come se avesse detto a quelli che restano indietro: farcela è possibile, io ce l’ho fatta. Più che a un Donald Trump vindice del popolo dei dimenticati, l’“underdog” di Giorgia Meloni somiglia al “Yes, we can” di Barack Obama. Non che la cosa ci faccia impazzire, ma è la prova dell’assalto, attraverso l’ottimismo della volontà, al consenso degli svantaggiati.

Sul fronte opposto, la sinistra appare disorientata e incapace di reagire alla chiarezza programmatica del nuovo premier. Per non soccombere, si nasconde dietro a dei “No” che non hanno senso né futuro. Lo si è visto con la modifica della denominazione del ministero delle Politiche agricole in “ministero dell’Agricoltura e della Sovranità alimentare”. La sinistra è letteralmente impazzita, sostenendo che quel cambio di nome fosse la pistola fumante della vocazione “sovranista” del nuovo Esecutivo. Ora, non stiamo qui a citare il precedente francese. Parigi da tempo ha dato al ministero per le Politiche agricole e alimentari la stessa denominazione oggi adottata dal Governo italiano. Ma la sinistra ha dimenticato che è stata la prima a parlare di sovranità alimentare? Ha dimenticato la “Via campesina”, il movimento che dal 1993 riunisce milioni di contadini, agricoltori di piccole e medie dimensioni, le persone senza terra, le donne contadine, gli indigeni, i migranti e i lavoratori agricoli di tutto il mondo per promuovere attraverso l’agricoltura sostenibile la giustizia sociale e la dignità del lavoro e della persona? È stato “Via campesina” a proporre negli anni Novanta modelli di sviluppo fondati sulla sovranità alimentare, in aperta opposizione allo strapotere delle multinazionali dell’agro-alimentare. E la sinistra italiana era ad applaudire quel movimento transnazionale. Adesso che la Meloni lancia un messaggio verso il mondo degli sfruttati, la sinistra dice no, preferendo assicurarsi un posto in prima fila nell’“archeologismo politico” da più parti evocato.

L’Italia è messa male. Tuttavia, la si può immaginare come una nave che pur avendo le vele strappate e qualche falla sulle fiancate, ha madieri, bagli e longheroni di solida quercia. Attraverserà la tempesta senza affondare, se tutto l’equipaggio s’impegnerà a essere libero secondo l’insegnamento impartito da Giovanni Paolo II per il quale “la libertà non consiste nel fare ciò che ci piace, ma nell’avere il diritto di fare ciò che si deve”. Giorgia Meloni ha fatto leva su due valori desueti nel tempo storico del conformismo e dell’omologazione al pensiero unico: coraggio e libertà. Per chi è di destra sono parole-chiave per consentire l’accesso a un universo amato e desiderato. Occorre, però, che molti altri italiani comincino a riconoscerle e apprezzarle, nella speranza che tra cinque anni, quando calerà il sipario sulla neonata legislatura, l’Italia non sarà la stessa. Sarà un posto migliore dove vivere e di cui andare fieri.


di Cristofaro Sola