Uno spettro si aggira per l’Italia: il draghismo

mercoledì 27 luglio 2022


Proprio non ci siamo. A sinistra, questa campagna elettorale parte male. Intendiamoci, non è che a destra siano rose e fiori. La sindrome da accerchiamento che è scritta nel Dna di Fratelli d’Italia rende Giorgia Meloni più sospettosa e diffidente del dovuto, anche nei confronti degli alleati con i quali dovrebbe governare l’Italia del prossimo futuro. Non è normale, bisognerà riparlarne, perché questo problema “psicologico” potrebbe avere ripercussioni negative sul piano dell’intesa politica con gli altri soggetti della coalizione.

Tuttavia, vogliamo tranquillizzare gli elettori di centrodestra avvertendoli che non è ancora tempo di fasciarsi la testa a causa degli istinti suicidi dei partiti che li rappresentano. Al momento, la mucca nel corridoio delle mitiche metafore bersaniane sta in casa del centrosinistra. Lo abbiamo sentito tutti Enrico Letta. La paura gli ha preso la mano. È tale la preoccupazione di perdere il potere che non ha indugiato a richiamare dal mondo dei morti dell’ulivismo prodiano, l’Union sacrée di centro, sinistra, centrosinistra e sinistra-centro, per fronteggiare un fantomatico pericolo delle destre che avanzano. Nonostante l’apparenza dei molti distinguo e dei veti incrociati – in politica, nulla è mai come sembra – siamo al frusto refrain delle coalizioni “anti” qualcuno. Un tempo, il “nemico ontologico” (categoria concettuale mutuata dal pensiero di Aleksandr Dugin) è stato Silvio Berlusconi. Poi è toccato a Matteo Salvini essere il bersaglio della crociata dell’esercito del “Bene”. Oggi il nemico si chiama Giorgia Meloni. Il segretario del Partito Democratico, complice la legge elettorale che impone le aggregazioni di partiti per vincere le sfide nei collegi dell’uninominale, prova a imbarcare tutti: da “Azione” di Carlo Calenda, zavorrata dal carico d’ingratitudine e faccia tosta dei transfughi di Forza Italia, ai “quattro amici al bar” di “+ Europa” con Emma Bonino e Benedetto Della Vedova, a “Insieme per il futuro” di Luigi Di Maio e dei grillini folgorati sulla via del moderatismo, a “Italia Viva” di Matteo Renzi, a incontrare il quale Enrico Letta si tura il naso e mette nel cassetto rancori antichi, ai nostalgici del comunismo di “Sinistra Italiana” con Nicola Fratoianni che Mario Draghi non l’hanno mai voluto, ad “Articolo 1- Mdp” di Roberto Speranza e soci della “ditta” bersaniana, che di fatto è già un satellite in orbita Pd, alla galassia di gruppuscoli dell’ambientalismo “thunberghiano” (nel senso dell’ossesso Greta Thunberg), alle icone del progressismo radical-chic come Elly Schlein, ai sindaci eletti col centrosinistra, ai cespugli “liberal” e neo-democristiani che stazionano al centro del panorama politico.

Una babele di posizioni discordanti sui passi da compiere nell’immediato, nel medio e nel lungo termine, che non ha una ragione che sia una per stare insieme se non quella di contrapporsi al nemico ontologico. Una roba del genere non può funzionare. Gli italiani, dopo quasi tre anni vissuti sotto la pressione dell’emergenza, prima sanitaria, poi economica e oggi strategica ed economica insieme, meriterebbero che le forze politiche rappresentassero loro visioni autentiche del futuro di società da ricostruire, una volta passata la tempesta. La gente non è stupida, non si fa incantare dai falsi allarmi sull’incombente pericolo fascista. D’altro canto, come potrebbero dare ascolto a chi, fino a ieri, ha sostenuto convintamente la nocività del ricorso alle urne rispetto a un’ordinata conduzione della nazione, affidata alle cure di un “tecnico” di altissimo profilo che però nessuna volontà popolare ha legittimato alla guida del Paese? La gente, mai come ora, pretende di conoscere quali siano le soluzioni concrete che i partiti propongono per superare la crisi e per rimettere la nave Italia sulla giusta rotta. Ma desidera conoscere anche quali siano i valori verso cui orientare lo sviluppo civile e morale della nazione. Ciò che si chiede non è contro chi votare, ma per cosa votare. È una questione d’identità, che le singole forze politiche, a maggior ragione le coalizioni, devono mostrare di possedere. Identità marcate, nette, non camuffamenti improbabili dietro slogan démodé.

Enrico Letta la butta in caciara, perché non ha il coraggio di tirare fuori, sotto elezioni, le cosiddette bandiere del progressismo: ius soli per naturalizzare gli immigrati, disegno di legge “Zan” per introdurre il gender in luogo della differenziazione biologica dei sessi, legalizzazione dell’eutanasia, liberalizzazione delle droghe leggere, patrimoniale sugli immobili per finanziare la spesa assistenziale. Benché spaventato, il segretario del Pd sa di dover pur dire qualcosa di sinistra al suo elettorato. Non potendo rinunciare allo schema della chiamata alle armi contro il nemico alle porte, cosa fa? Nasconde la polvere del progressismo sotto il tappeto e si dichiara pronto ad abbracciare l’idea di Carlo Calenda di riconoscere un comune denominatore nella realizzazione dell’agenda draghiana. Che è il nulla, dal punto di vista della politica alta. Dire che per un’intera legislatura il programma di un’ammucchiata di centrosinistra possa riassumersi nelle iniziative di Governo che il premier uscente Mario Draghi avrebbe assunto nei prossimi quattro-cinque mesi in piena emergenza economica e sociale è di una miopia sconcertante. E dimostra che in quell’area politica mancano idee sostenibili per il futuro dell’Italia e, quelle poche che ci sono, si teme a farne argomenti di campagna elettorale; che il potere per il potere è il solo collante che li tiene uniti.

Mario Draghi, con tutto il rispetto per la persona, resta una parentesi nella storia dei governi repubblicani. Ma se qualcuno ha deciso di appropriarsi di quella esperienza per farne un’ideologia prêt-à-porter, dando vita a un draghismo senza Mario Draghi, compie un errore colossale. Perché s’intesta una modalità d’approccio al rapporto tra gli attori della dinamica democratica che, se giustificabile con difficoltà nell’arco temporale ristretto dello “stato d’eccezione”, diviene negazione della democrazia se perpetuata nel tempo. Ma cosa s’intende per “draghismo”? Lo spiega Roberto Arditti dalle pagine on-line di “Formiche”: “Diciamo che è la convinzione di essere i migliori a prescindere, di avere ragione a prescindere, di saper indicare la strada giusta perché dotati di competenza, buone relazioni, esperienza invidiabile”.

Può bastare per candidare una coalizione confusa e contraddittoria, a corto di idee forti, a governare l’Italia? Certo che no. Non è una postura che può cambiare il corso delle cose. Sono le idee di ampio respiro che rimettono in cammino la Storia. Per essere invogliate a esercitare il diritto sovrano del voto occorre che le persone si riconoscano in un paradigma di società. Si tratta di sfidarsi sui valori fondanti della comunità nazionale, scegliendo da che parte stare. La cosa più sconvolgente che viene fuori dalle interviste estemporanee fatte alla gente per strada è la convinzione diffusa che recarsi alle urne non serva perché “tanto non cambia niente”. A causa della congiuntura geopolitica ed economica che stiamo attraversando, non possiamo concederci il lusso dell’astensione dal voto col pretesto che “resta tutto sempre uguale a prima”. È vero il contrario: nulla può più essere come prima. Vale per la destra, ma anche per la sinistra. Rappresentare agli elettori modelli sociali e di sviluppo economico alternativi è un dovere inderogabile della politica.

Perciò, non c’è spazio, né futuro, per il draghismo. Nessuno può pensare di governare sulla base di lasciti testamentari o di rendite di posizione accumulate nel recente passato. Enrico Letta, Carlo Calenda e la congerie di personaggi in cerca d’autore che in queste ore sciamano nel campo arso del progressismo pensino bene al pasticcio che stanno architettando. Ammucchiandosi, la somma aritmetica delle loro molteplici incompatibilità non li porterà a vincere. Il che sarà un male per loro e un bene per il Paese.


di Cristofaro Sola