Uno, cento, mille Ciampolillo

martedì 19 luglio 2022


Commuove questa Italia dei buoni, dei responsabili, dei sindaci che firmano petizioni, degli idraulici, dei porporati e delle shampiste, che si mobilita per convincere Mario Draghi a restare al suo posto. Il mutuo soccorso è una cosa bellissima, soprattutto quando promana dalla mitica “società civile”. Il problema, semmai, è capire per cosa la grande macchina della solidarietà si sia messa in moto. Qui, dobbiamo fare a capirci. Si vuole che Draghi resti non per salvare l’Italia ma per tenere al sicuro, per altri otto-nove mesi o forse più, il Partito Democratico e la palude dei neo-centristi – quelli del consenso da prefisso telefonico – all’interno della stanza dei bottoni. Già, perché, stando a tutti i sondaggi disponibili (per quel che valgono), un’elezione anticipata porterebbe a una schiacciante vittoria del centrodestra, alla sconfitta della sinistra, alla quasi sparizione della palude centrista e all’estinzione dei grillini. È ciò che si vuole impedire implorando Mario Draghi di non abbandonare la nave. Per raggiungere lo scopo, in queste ore, il tono apocalittico è schizzato alle stelle, segno che quando si è presi dal panico la prima cosa di cui ci si libera è la decenza. Bisogna sentirle le “Cassandre” del Palazzo: senza Draghi le mucche non faranno più latte, le api non daranno più miele e le donne non partoriranno più figli.

Devono averci presi per idioti che si bevono qualsiasi fregnaccia. Siate seri e non raccontate balle. Se il Governo si dimette e la legislatura viene sciolta, per qualche mese il Governo in carica andrà avanti per il disbrigo degli affari correnti che, per prassi costituzionale e orientamento giurisprudenziale, si traduce nella libertà dell’Esecutivo di adottare tutte le misure necessarie a mettere in sicurezza il Paese e a produrre tutti gli atti destinati a incidere su eventi indifferibili. L’unica cosa che non si potrà fare a Camere sciolte è di votare eventuali “fiducie” al Governo. Inconveniente superabile mediante la stipula di un “gentlemen agreement” tra le forze che finora hanno sostenuto il Governo Draghi, ad eccezione, com’è ovvio, dei Cinque Stelle. Novanta giorni e si avrà un nuovo Parlamento depurato della presenza debordante di una forza politica, il Cinque Stelle, che non rappresentando più alcuno nel Paese, nella sua gran parte ha scelto, parafrasando Karl Marx, di costituirsi come esercito parlamentare di riserva del Partito Democratico.

E Mario Draghi? Lui vuole andare via. Su questo non ci piove. Lo abbiamo scritto: il premier è grato a Giuseppe Conte di avergli fornito il pretesto per togliere il disturbo. Uscire ora significherebbe salvare la propria reputazione prima che sia tardi. Prima cioè che la tempesta che si sta addensando all’orizzonte non gli si abbatta addosso in tutta la sua violenza. Il vizio capitale che inficia la narrazione dei draghiani della prima e dell’ultim’ora, a sinistra come al centro, sta nel dare per scontato che il premier sia in grado di affrontare il peggio mettendo al riparo le famiglie e le imprese italiane dalla crisi che si scatenerà a partire dal prossimo autunno. Non è così e il primo a esserne consapevole è proprio Mario Draghi.  Non è questione d’inattitudine. A differenza dei politici in circolazione l’ex capo della Banca centrale europea avrebbe tutti i numeri per gestire la situazione. Il problema è, per così dire, oggettivo. Nel senso che dipende principalmente da variabili esterne ed estranee al contesto nazionale. La crisi scaturita dal riposizionamento strategico dell’Unione europea rispetto alla Federazione Russa, in relazione alla vicenda ucraina, avrebbe richiesto una risposta totalmente unitaria di tutti i Paesi dell’Unione. Risposta che non c’è stata. In Europa si procede in ordine sparso e ciascun governante segue la bussola che indica nella difesa utilitaristica dell’interesse nazionale la propria stella polare. Ne consegue che, di là da qualche intervento random di Bruxelles su specifici temi di crisi, nel complesso l’Italia dovrà cavarsela da sola per evitare di affondare. Purtroppo, questa forza il nostro Paese non l’ha. Di certo non la possiede nella misura che occorrerebbe per evitare il peggio. Tale condizione di debolezza ha cause antiche ma ne ha anche di sgradevolmente attuali.

La scelta politica di Mario Draghi di farsi alfiere della reazione più intransigente contro Mosca e di sostenere senza riserve le ragioni di Kiev in una sorta di ortodossia neo-atlantista che non è mai appartenuta ai governi italiani della Seconda Repubblica e, ancor più, a quelli a egemonia democristiana della Prima Repubblica, ha di molto complicato la nostra posizione sulla scena internazionale. Un esempio per intenderci. La potente Germania, che è stata costretta dalle pressioni statunitensi a schierarsi contro Vladimir Putin, in queste ore non si è fatta scrupolo di reperire in Canada i pezzi di ricambio per la manutenzione delle turbine del gasdotto russo Nord Stream 1 perché potesse rapidamente riprendere l’erogazione del gas, interrotta per motivi tecnici dallo scorso 11 luglio. Lo ha fatto in palese dispregio delle sanzioni comminate dall’Occidente a Mosca, che vieterebbero le forniture di materiali all’industria russa. L’Italia, che ha un problema analogo a quello tedesco in ordine alla necessità di continuare a ricevere materia prima energetica dalla Russia, preferisce cambiare fornitore. Il Governo italiano scende a patti con i più sanguinari dittatori africani invece di tentare di riallacciare il dialogo con il Cremlino. Sfidare apertamente Mosca non l’ha ordinato il medico. Si tratta di scelte politiche che non possono non avere gravi conseguenze. Draghi le ha assunte contando sulla solidarietà dell’Europa e degli Stati Uniti. Ma è stato un calcolo sbagliato. Per questa ragione vuole andare via: non ha intenzione di esserci quando la realtà busserà alla porta di Palazzo Chigi per presentare il conto.

Le forze politiche nostrane hanno la testa altrove, impegnate come sono a guardarsi l’ombelico. Si sono date a contemplare il pelo dei rapporti di forza tra i partiti, ignorando le dimensioni della trave della crisi che sta per crollarci addosso. C’è una protesta sociale pronta a montare nelle prossime settimane, appena scavallata la pausa d’agosto. Eppure, c’è qualcuno – è il caso di Giuseppe Conte – che immagina di poter cavalcare la rabbia popolare ricostruendosi frettolosamente una verginità grazie a un rapido passaggio all’opposizione, dopo aver ininterrottamente governato dal 2018. Che genio l’“avvocato del popolo”, il quale vorrebbe imporre agli altri di restare a guardia del bidone di benzina mentre lui e i quattro gatti che gli restano accanto si predispongono a impallinare il Governo dai banchi dell’opposizione.

Tuttavia, l’ingenua follia non è soltanto dell’avvocato di Volturara Appula. È anche di Enrico Letta e di Luigi Di Maio che pensano di essere furbi. Draghi lo farebbero restare cambiando etichetta all’ennesimo gruppetto di transfughi a Cinque Stelle, pronti a farsi “responsabili” alla Alfonso Ciampolillo, detto Lello – il senatore più corteggiato d’Italia quando si tentò di salvare in Parlamento il Conte bis – pur di restare incollati alla cadrega. Mario Draghi, così attento a mantenere integra la sua reputazione, si presterà alla pagliacciata di Palazzo con una crisi politica che si risolverebbe grazie a un artificio da azzeccagarbugli? Fuori formalmente i Cinque Stelle da un nuovo patto di fine legislatura e dentro i “responsabili” per salvare le natiche del “soldato Enrico”, dell’“appuntato Renzi” e dell’“attendente Giggino”.

E il centrodestra di Governo della coppia Berlusconi-Salvini si presterà al gioco, rischiando la rottura con Fratelli d’Italia? Già, perché Giorgia Meloni non “capirebbe” il rifiuto dei due di segnare un goal a porta vuota. Ma con tutto il rispetto per la signora Meloni, ci chiediamo: lo capirebbero i milioni di italiani che a differenza dei mille sindaci firmatari dell’appello “Draghi resta con noi”, degli idraulici, dei porporati e delle shampiste, vorrebbero un altro Governo, un’altra maggioranza e una guida di leggibile impronta politica per raddrizzare una barca che sbanda pericolosamente? Non fatevi illusioni, se Draghi resterà al timone della nave Italia sarà solo perché glielo chiede, dall’altra sponda dell’Atlantico, l’inquilino della Casa Bianca. Con motivazioni tutt’altro che tranquillizzanti per la democrazia italiana. E per la sovranità che in teoria, ma solo in teoria, apparterrebbe al popolo.


di Cristofaro Sola