Ucraina: il male assoluto e gli unici innocenti

lunedì 13 giugno 2022


Il drammatico concetto, che più di tutti ha insanguinato la storia, è quello di Male Assoluto. Perché il male esiste, è parte di noi (per fortuna minoritario altrimenti saremmo estinti) ma il male assoluto no, è solo un inesistente invenzione retorica, un’iperbole per vincere uno scontro, una pericolosissima esagerazione, che apre la strada però ad ogni possibile crimine, perché già a priori lo giustifica, creando il mostro.

Raffiguriamo l’orco tedesco e le sanguinarie potenze coloniali e avremo la prima, stupida, grande guerra, aggiungiamoci il razzismo discriminatore, il comunismo sovvertitore e il complotto plutocratico mondiale e avremo la seconda, con i gas, la guerra sottomarina, i bombardamenti terroristici, lager e gulag, Hiroshima e Nagasaki. Inventiamoci Satana e avremo la caccia alle streghe e la Santa Inquisizione. Questo non vuol dire affatto che il male non esista, né che non ci siano torti o ragioni e tantomeno che una democrazia liberale non sia meglio (e molto) di uno Stato totalitario, vuol dire però che l’incapacità totale di vedere anche in minima parte le ragioni altrui può condurre solo al rifiuto di trattative, al concetto di “unconditional surrender”, alla distruzione totale del nemico, in quanto mostro. E se questo purtroppo è successo spesso lungo tutto l’arco della storia, non possiamo, oggi, dimenticare che si è verificata una discontinuità in questa storia che sembra invece voler proseguire, una enorme discontinuità che tutto cambia, determinata dall’arma atomica. Possiamo discutere all’infinito delle colpe e delle responsabilità del conflitto che sta insanguinando l’Est Europeo, possiamo benissimo sostenere che c’è un solo e chiaro aggressore russo oppure che molto nasce anche dal violento colpo di mano che rovesciò il governo filo-russo, regolarmente eletto, di Yanukovitch.

Possiamo dare peso al precedente di quell’Ucraina indipendente nata dal Trattato di Brest-Litovsk e voluta tale dalla Germania del Kaiser prima della sua sconfitta, oppure ricordare i secoli di unità dell’impero russo, ricordare i feroci massacri di ucraini di Stalin o i collaborazionisti nazi di Stepan Bandera, considerare quel Donbass che votava i filorussi e che si è visto togliere il diritto alla sua lingua o ricordare invece la regione di Leopoli che non era russa, ma polacca e prima ancora austro-ungarica e annessa all’Urss con la forza bruta.

Possiamo studiare i profili psicologici di un autocrate che sembra voler restaurare l’infinita storia russa o di un presidente che sembra coraggiosamente interpretare la più grande parte drammatica della sua vita, possiamo anche chiederci perché questo accada oggi che la Russia stava provando a rientrare nel solco della tradizione europea e non ieri, quando il comunismo sovietico voleva convertire con la rivoluzione il mondo.

Possiamo chiederci tutto questo, secondo la lezione di Arnold Toynbee che ammoniva come il dramma della Storia risieda nel fatto che spesso le ragioni sono da entrambe le parti, oppure accettare, ognuno secondo i propri preconcetti o interessi, una visione manichea che assegna torti o ragioni tutti ad una sola parte. E, d’altro canto, la propaganda di guerra e la rappresentazione del nemico come male assoluto non sono certo una novità, ma uno strumento della guerra stessa, che abbiamo sempre visto all’opera sia nella storia antica che in quella contemporanea. Nulla di nuovo sotto il sole dunque?

No, invece, non è così, non può più essere così. Tutto è enormemente cambiato e peggiorato, perché oggi viviamo in un’epoca di economia integrata e soprattutto in epoca nucleare, cosa che rende quel modo di pensare non solo totalmente inadeguato, ma aperto ad esiti che possono essere addirittura criminali verso i veri innocenti. Perché possiamo pensare quello che vogliamo sui torti e le ragioni dei dirigenti russi e ucraini, ma quello che è assolutamente certo è che gli abitanti di Roma e Parigi, di Budapest e Berlino, sono davvero del tutto innocenti di quello che accade e rende perplessi constatare che l’attuale vertice dell’Unione europea, pur se con giuste ragioni di rifiuto dell’attacco militare, schierandosi in maniera così decisa da una parte sola, esponga i suoi cittadini ai rischi seri ed immediati di recessione economica e a quelli, certo non immediati, ma potenzialmente terribili e assoluti, di un coinvolgimento generale che potrebbe essere nucleare.

Al di là dei gravi danni economici e sociali per i cittadini europei, danni certi e di lunga durata, si può tuttavia sostenere (e spero con ragione) che la drammatica ipotesi nucleare nella realtà non si avvererà di fatto mai, ma… e se così non fosse? Non possiamo rincuorarci del tutto, se solo riandiamo con la mente ad altri momenti della storia in cui ci è sembrato che il semplice buon senso bastasse ad escludere gli eventi più tragici, come quegli aristocratici che scherzavano sul pericolo per le loro vite nei primi tempi della Rivoluzione francese o quei cittadini tedeschi di religione ebraica, che semplicemente si rifiutavano di credere che un Paese civile come la Germania potesse davvero spingere la discriminazione nei loro confronti fino alla “soluzione finale”. Cosa succederebbe se le psicologie turbate dallo scontro di fronte alla platea del mondo, sia dei protagonisti diretti che di un presidente americano desideroso di lavarsi del colpevole (e non necessario!) abbandono degli afghani, dovessero renderli schiavi delle loro apodittiche dichiarazioni, fino al punto di sentirsi obbligati alla retorica del “gesto” costi quello che costi?

Ricordiamoci che la cronaca di tutti i giorni è piena di eventi tragici e completamente irrazionali che ci ricordano come nella mente umana non ci sia solo la ragione e soprattutto riflettiamo che quel qualcosa che vogliamo continuare a considerare impossibile è già veramente successo ed è perfettamente inutile provare a rimuoverlo dalla nostra coscienza critica: Hiroshima e Nagasaki sono state davvero annientate in un olocausto nucleare, sono davvero scomparse in un lampo atomico. Faccio l’astrofisico da molti anni, ma la mia formazione iniziale è di fisico nucleare, così per me uno scontro atomico non è qualcosa di lontano e vago, come appartenente al regno delle favole per spaventare i bambini, ma qualcosa di potenzialmente assolutamente reale e terribile, non qualcosa su cui scherzare o di cui parlare senza averne nessuna reale conoscenza e fino al punto di capovolgere completamente la realtà mobilitando grandi folle contro la pacifica energia elettronucleare, così utile (e ormai oggi indispensabile) contro l’effetto serra e al contrario rimuovere completamente dalla mente i rischi mortali delle migliaia di bombe su missili ipersonici.

È preoccupante la continua scalata delle dichiarazioni infuocate, da Vladimir Putin a Zelensky, da Boris Johnson a Joe Biden (ultime le folli invettive di Dimitri Medvedev) rischiamo che “la guerra delle parole” crei una situazione in cui i protagonisti si condannino da se stessi ad un piano inclinato di “impegni sacri” al termine del quale c’è solo la guerra per non perdere la faccia. Proprio come successe nella Grande guerra, che nessuno in realtà voleva e che però ci fu (ma che, pur se crudele e idiota, non fu atomica).

Se rifiutiamo veramente, come è giusto, razionale e umano, l’ipotesi di una guerra generale, la trattativa, una trattativa vera, realista, è allora assolutamente obbligata, perché l’etica, la morale e i comportamenti che ne derivano, non possono, in epoca nucleare, essere gli stessi del passato. E dunque è perfettamente inutile che la Russia ricordi i bei tempi di quando erano un solo popolo, di quando l’Ucraina stava alla Russia come la Toscana all’Italia; gli ultimi episodi, anche per la loro condotta da “terra bruciata”, hanno scavato un solco ormai insormontabile, gli ucraini col coraggio e la determinazione sono ormai diventati un altro popolo, forgiato dalla sofferenza e il loro diritto all’indipendenza è ormai sacrosanto, ma è altrettanto inutile ed altrettanto ingiusto che vogliano trattenere con sé quelli che si sentono ancora russi, che non vogliono rinunciare alla loro lingua e all’attaccamento a quella che considerano da sempre la loro madrepatria.

È già successo tante volte e da tante altre parti, in Irlanda del Nord, in Serbia, in Canada e nelle colonie nordamericane, in Prussia Orientale, in Istria e in Alto Adige, talvolta con giusti compromessi, talaltra con infiniti lutti. Non si dica, per carità, che questo vuol dire accettare il fatto compiuto del successo della violenza, non solo perché se questo è vero, è allora tale per tutte le violenze e anche per gli scontri di piazza Maidan che fecero cadere un governo legittimo, ma soprattutto perché gli Africani che rischiano la catastrofe alimentare e gli europei trascinati controvoglia in una spirale a rischio nucleare, sono degli innocenti coinvolti del tutto ingiustamente, di cui pure bisogna tenere conto.

Io, come tutti i liberali, sono stato sempre dalla parte degli Stati Uniti, nel loro scontro col comunismo sovietico e internazionale (e anche per questo non devo dir loro sempre sì, come coloro che, invece, devono far dimenticare il loro passato), perché era una battaglia in difesa della libertà che non poteva non coinvolgermi, ma ritrovo molto poco di questo nello scontro odierno, con una Russia che non è quella di Stalin o di Breznev e che non posso combattere e contrastare allo stesso modo di allora con la giustificazione che rimane una pericolosa superpotenza concorrente.

L’ondata di indignazione delle cancellerie e dei media occidentali, che sembra voler tutto travolgere, spingendo quasi a sospettare di connivenza ogni indizio di dissenso, ha delle giustificazioni, ma, nel momento in cui impedisce di riflettere, di vedere le ragioni, di cercare delle soluzioni, diviene pericolosa, perché poi, sempre, con l’ampliarsi delle guerre le violenze peggiorano, si estendono e crescono. Anche sul piano della più pura realpolitik, poi, devo rimarcare che i popoli anglosassoni di lingua inglese, stanno tradendo la loro tradizione di far coalizioni contro la principale potenza avversaria, spingendo in questo modo la Russia (che pure è europea e cristiana) in braccio alla Cina, in luogo di coinvolgerla in una alleanza di contenimento di una nazione asiatica che, ben presto, potrebbe superare in potenza gli Stati Uniti. È un errore che può provocare un disastro. L’America che ho conosciuto e amato è quella delle libertà, di Reagan e Kennedy (di quel Kennedy che a Berlino divisa diceva: “Ich bin ein Berliner”, non, “dovete seguire noi americani”), non l’America del Pensiero unico, della “Cancel culture” e del “Politically correct”, non quella dell’incrocio di nichilismo e sinistrismo che dà il via libera ai talebani. Amo l’America repubblicana di Lincoln, l’America della pacificazione dopo la Guerra civile, l’America tollerante, l’America tradizionale che spero torni ad essere tale, così come Leningrado è tornata San Pietroburgo.

Anche in questa attesa, resta però una speranza. Restano Macron, Scholz e Draghi, la Francia, la Germania e l’Italia, il nucleo duro e storico della costruzione europea, le cui esitazioni sembrano essere via via più evidenti (e che cominciano anche ad essere bersaglio di critiche ucraine) perché da lì può partire una riflessione che può portare alla pace, ad una maggiore difesa degli interessi europei e anche ad un nuovo impulso per quell’Europa a dimensione politica che possa portare il nostro Continente ad una reale indipendenza. Indipendenza che, oggi, per la difesa, l’energia e la politica estera, è così parziale da essere inesistente. Ogni momento è buono, ma chissà che l’incontro, come sembra profilarsi, dei tre leader a Kiev, non possa portare al migliore dei compromessi possibili, non solo per la pace in quel martoriato Paese, ma anche per creare i presupposti per arrivare ad una vera, democratica, liberale, costruzione europea.

Per far questo bisogna però recuperare la finestra di opportunità che la Brexit e la politica isolazionista di Donald Trump avevano per un attimo aperto, l’opportunità cioè di un’Europa realmente unita e sovrana, sicuramente alleata col blocco anglosassone, ma su di un piano di parità reale, senza Paesi sostanzialmente disarmati, ma con bombe atomiche americane sul loro territorio e un diverso status all’Onu.

Ecco perché sono e resto favorevole alla linea della Lega, perché, pur tra errori, contraddizioni, ingenuità e inesperienze, è una linea che non è di pacifismo manicheo, ma invece razionalmente pacifica e di tutela dei legittimi diritti di tutti. E il tempo ci darà ragione. Da liberale, atlantista ed europeista sono da sempre e non sono di certo favorevole alle autocrazie, ma non dimentico di essere Italiano e l’Europa la voglio libera, indipendente, pacifica e sicura di sé.


di Giuseppe Basini