I referendum sulla giustizia e la cultura della forca

giovedì 9 giugno 2022


A pochi giorni dai referendum sulla Giustizia, registriamo l’agghiacciante intervento della grillina Giulia Sarti la quale, nel corso della puntata del 6 giugno di Quarta Repubblica, talk di approfondimento politico condotto da Nicola Porro su Rete 4, si è detta fortemente contraria a tutti e cinque i quesiti in ballo. Ferocemente contraria soprattutto in merito a quello per la separazione delle funzioni dei magistrati. Secondo l’esponente di un partito con una idea di giustizia di tipo medievale, sarebbe auspicabile l’intercambiabilità dei magistrati. In questo modo, il cittadino sarebbe più garantito da un sistema giudiziario in cui i magistrati, alternandosi a piacimento tra le funzioni giudicanti e quelle requirenti, a suo dire acquisirebbero maggiori competenze, mandando letteralmente al diavolo la tanto decantata terzietà del giudice super partes.

Altrettanto drastica la posizione del suo leader di partito, l’avvocato Giuseppe Conte: “I quesiti sono frammenti normativi che intervengono quasi come una vendetta della politica nei confronti della magistratura”. La magistratura – ha proseguito il presidente del Movimento Cinque Stelle – ha delle colpe, “tra cui la deriva correntizia. Di qui ad assumere, da parte della politica, un atteggiamento punitivo, ne corre. Ecco perché noi siamo assolutamente contrari al referendum. Continueremo a lavorare per progetti di riforma organici e sistematici”.

Ora, colpisce in maniera particolare il fatto che questa difesa d’ufficio dei magistrati provenga da un avvocato, la cui categoria ha sempre combattuto per una riforma del giudizio penale in cui venisse affermata, una volta per tutte, la terzietà del giudice. Terzietà che con la disfunzionale commistione tra togati che svolgono mansioni tra loro incompatibili, i quali spesso lavorano a stretto contatto di gomito, rappresenta in molti casi una pura utopia. A tal proposito, risultano piuttosto illuminanti le parole di Antonio Giangrande, avvocato di Avetrana, che ha pubblicato un libro su uno dei casi più controversi della nostra giustizia-spettacolo: il processo per l’uccisione della povera Sarah Scazzi. Ha scritto infatti Giangrande: “Come è possibile che a presiedere la Corte di Assise di Taranto per il processo di Sarah Scazzi, in violazione al principio della terzietà ed imparzialità del giudice, sia il giudice Cesarina Trunfio, ex sostituto procuratore di Taranto, già sottoposta del Procuratore Capo di Taranto, Franco Sebastio, nonché collega dell’aggiunto Pietro Argentino e del sostituto Mariano Buccoliero, cioè ex colleghi facenti parte del collegio che sostiene l’accusa nel medesimo processo sul delitto di Sarah Scazzi dalla Trunfio presieduto?”.

Un dubbio più che legittimo che l’attuale normativa non sembra assolutamente in grado di tacitare, dal momento che adesso il passaggio tra i due ruoli è limitato a un massimo di quattro volte con alcune regole, tra cui l’impossibilità di svolgere entrambe le funzioni all’interno dello stesso distretto giudiziario. Tuttavia, se la riforma presentata dalla ministra della Giustizia, Marta Cartabia, dovesse essere approvata, il numero di passaggi possibili scenderebbe a uno.

Se poi a tutto questo ci aggiungiamo la deriva correntizia sottolineata dallo stesso Conte, con il meccanismo della valutazione quadriennale dei magistrati, che uno dei referendum vorrebbe estendere anche agli avvocati e ai professori universitari di materie giuridiche – i quali attualmente svolgono solo un ruolo consultivo nel Consiglio disciplinare – e l’obbligo di raccogliere almeno 25 firme di magistrati per candidarsi al Consiglio superiore della magistratura, obbligo che i promotori del referendum intenderebbero abolire, dal punto di vista di un garantista si ha l’impressione di doversi confrontare con una casta quasi intoccabile.

D’altro canto, occorre ricordare che per decenni, soprattutto dal versante politico e culturale della sinistra, nella terminologia comune non si è mai fatta molta distinzione tra giudici e pubblici ministeri. Rammento che durante il periodo oscuro di Mani pulite, in cui un avviso di garanzia equivaleva a una condanna passata in giudicato, i membri della Procura di Milano venivano spesso e volentieri definiti giudici. Una confusione che, ancora oggi, ogni tanto si ripresenta nelle sue sinistre sembianze. E che tende a rafforzare l’idea che, nei fatti, non siamo ancora usciti dal modello inquisitorio del processo penale, dove la figura del giudice e del magistrato inquirente risultano troppo sfumate nell’immaginario collettivo.

Ovviamente, nell’acqua stagnante di una giustizia che continua a partorire mostri – pensiamo, ad esempio, ai cinque gradi di giudizio, con addirittura due assoluzioni, che hanno portato alla condanna definitiva di Alberto Stasi per il delitto di Garlasco – i cinque referendum rappresenterebbero solo un piccolo ma significativo passo nella direzione del tanto decantato “giusto processo”. Per questo motivo è importante che il 12 giugno, andando a votare, venga sconfitta la cultura della forca, del sospetto e del giudizio sommario, che sembra avere ancora molto seguito in questo disgraziato Paese.


di Claudio Romiti