Salvini: un leghista sull’orlo di una crisi di nervi

martedì 31 maggio 2022


Donne sull’orlo di una crisi di nervi. È il titolo di un film scritto e diretto dal regista spagnolo Pedro Almodóvar. La pellicola è del 1988 ed è liberamente ispirata alla pièce teatrale La voce umana (1930) dello scrittore francese Jean Cocteau. Oggi quel titolo lo prendiamo in prestito per rappresentare in modo perfetto lo stato d’animo di Matteo Salvini. L’incipit è: un leghista sull’orlo di una crisi di nervi. Già, perché sembra che il “Capitano” non ci stia più con la testa. Sono mesi che non ne azzecca una. Scende nel gradimento degli italiani. E più l’indice cala, maggiore è il numero dei passi falsi che Salvini colleziona. Che sia ansia da prestazione? Vedersi scavalcato da Giorgia Meloni, seppure nei sondaggi, gli toglie lucidità. Tuttavia, non è la leader di Fratelli d’Italia la protagonista unica dei suoi incubi notturni. E diurni. Con certosina pazienza e gesuitico cinismo, il suo alter ego nel partito, Giancarlo Giorgetti, gli sta scavando la fossa. Il numero due della Lega sta portando il partito, attraverso un severo processo di normalizzazione in chiave europeista, in direzione opposta a quella praticata dal 2014, data d’inizio della rivoluzione copernicana targata Matteo Salvini, all’estate del 2019, stagione del decesso del sovranismo leghista certificato dal funerale celebrato sotto il sole stordente del Papeete.

Per dimostrare la fallacia del detto “quando si tocca il fondo non si può che risalire”, Matteo Salvini ne ha pensata un’altra, clamorosa: una personale missione di pace a Mosca per convincere Vladimir Putin a cessare il fuoco e ad avviare un negoziato che salvi l’Ucraina da un destino che appare segnato. È uno scherzo? Caro Matteo, non puoi fare sul serio. Viene difficile individuare chi sia la mente sopraffina nel suo staff che l’abbia indotto a credere nel successo dell’avventura. Di certo non sarà stato Lorenzo Fontana, responsabile Esteri e vice-segretario federale del partito. Al contrario, indiscrezioni di stampa ricostruiscono il contenuto di una telefonata piuttosto burrascosa tra il capo e il suo vice, nella quale il secondo avrebbe ammonito il primo a riflettere bene sull’improvvida iniziativa che potrebbe tramutarsi in un ferale boomerang. Ci sta che Lorenzo Fontana si preoccupi delle “genialate” del capo, perché il dirigente veronese non è soltanto il tessitore discreto di tutti i rapporti internazionali della Lega. Fontana è la voce di quel mondo leghista ultraconservatore, convintamente identitario e ancor più convintamente contrario alla globalizzazione, che ha dato volto e rappresentanza all’Italia profonda, cattolica, sovranista, oppositrice delle politiche europee che mortificano il lavoro, le produzioni, i valori, le tradizioni del nostro Paese. Un mondo che in parte ha abbandonato la sponda leghista quando ha preso atto della svolta moderata, consociativa, “draghiana”, del partito. Porzione di elettorato quantificabile nello scarto percentuale che corre tra il 34,26 per cento conquistato alle Europee nel maggio 2019 e le odierne stime che valutano la Lega al di sotto del 15 per cento. Per Salvini, sganciarsi dal mondo che Fontana rappresenta, sarebbe il colpo definitivo alla sua ambizione di continuare a guidare il partito nel prossimo futuro.

A essere invece leader del centrodestra alle prossime politiche il “Capitano” non pensa più. Quel treno è passato da un pezzo. Ora è il momento di Giorgia Meloni che all’ultima virata ha preso il vento in poppa spingendo la barca Fratelli d’Italia a volare sull’onda del consenso. Come si dice: nella vita ci vuole fortuna. E la signora Meloni è donna fortunata. Già, perché per le sue ambizioni di leadership, la vicenda della crisi russo-ucraina si sta rivelando un terno al lotto. Per come si sono messe le cose, oggi lei figura come una solida atlantista, più vicina ai repubblicani statunitensi e a Mario Draghi nel sostenere la rottura con Mosca e l’appoggio incondizionato a Kiev di quanto non lo sia Salvini che è partner di Governo. Attenzione, però: non è tutto oro ciò che luccica. L’occasione, offerta dall’aggressione russa all’Ucraina, di mostrarsi fieramente schierata con l’Occidente ha consentito alla signora Meloni di nascondere un po’ di polvere sotto al tappeto. L’antiputinismo sbandierato da Fratelli d’Italia non è soltanto figlio di una netta scelta di campo geopolitico. Ha un retrogusto di opportunismo che disturba. Più che ascoltare la voce della libertà che viene da Ovest, dagli Stati Uniti, Giorgia Meloni è stata attratta dalle sirene antirusse della Polonia. È accaduto per ragioni di bottega. A Varsavia il Governo in carica è guidato da Mateusz Morawiecki, leader del partito Diritto e Giustizia (PiS) che alle ultime elezioni per la Sejm – la Camera bassa del Parlamento polacco – ha raccolto il 43,59 per cento dei consensi ottenendo la maggioranza assoluta di 235 seggi su 460. Il PiS è un partito conservatore che attualmente esprime 27 europarlamentari. Costoro sono iscritti al Gruppo/partito dei Conservatori e Riformisti europei (Ecr) presieduto, dal 2020, da Giorgia Meloni. Il PiS, dopo l’uscita dei conservatori britannici dall’Unione europea, è la rappresentanza nazionale più consistente nell’ambito dell’Ecr. La delegazione italiana, costituita esclusivamente da Fratelli d’Italia, conta otto europarlamentari dopo l’ingresso nel partito dell’europarlamentare ex leghista Vincenzo Sofo. Di recente, la componente polacca ha mostrato segni d’insofferenza verso la presidente Giorgia Meloni, ritenuta troppo incline a dare spazio alle idee del premier ungherese Viktor Orbàn sull’ipotesi di rassemblement con la destra lepenista e filo-putiniana. Il malessere ha spinto i polacchi, nel 2021, a minacciare un’uscita clamorosa dall’Ecr, gruppo che avevano contribuito a fondare nel 2009 insieme ai Conservatori britannici e al Partito Democratico civico della Repubblica Ceca.

La crisi russo-ucraina, piovuta come cacio sui maccheroni sulla destra conservatrice italiana, ha consentito alla Meloni un totale recupero della frazione polacca. Da qui l’acuirsi della spaccatura nel centrodestra nostrano, con la Lega rimasta fedele al Gruppo Identità e Democrazia, frequentato in coabitazione con i sodali francesi di Marine Le Pen e Forza Italia, orgogliosamente ancorata al Partito Popolare europeo; da qui l’appiattimento di Fratelli d’Italia sulle posizioni oltranziste del Governo polacco. Di tale anomalia Matteo Salvini finisce per esserne in qualche misura vittima incolpevole. Che non è propriamente il migliore viatico per cominciare una cavalcata trionfale verso il traguardo delle Politiche del 2023. Cosa deve fare il leader leghista per uscire dal cul-de-sac nel quale si è cacciato? Difficile a dirsi, con un Mario Draghi che ha preso il comando delle operazioni e ha deciso di tirare dritto per la sua strada ignorando i mal di pancia provocati dall’azione di governo ai partiti della maggioranza.

Ciò che sappiamo, invece, è quel che Salvini non deve fare. Non faccia idiozie con iniziative strampalate che gli tornerebbero indietro come un boomerang, per usare un’immagine attribuita a Lorenzo Fontana. Neanche rimettersi alla testa della protesta sociale ha senso, a meno che Salvini non abbia in mente di andare fino in fondo nella contrapposizione a Mario Draghi. Ora, la domanda è: il “Capitano” ha la forza di far saltare il Governo? E, soprattutto, il partito che è sempre più “giorgettiano”, lo seguirebbe? A giudicare dai fatti, la risposta è negativa. Un dato di cronaca lo conferma. La notizia della programmata spedizione moscovita di Salvini è cominciata a circolare pressappoco in concomitanza della serrata indetta dai pescatori contro il caro gasolio. In altri tempi il leader leghista non avrebbe avuto alcun dubbio sul dove farsi trovare dai giornalisti e dai fotografi: su qualche molo di uno dei tanti porti italiani a fare baccano. Oggi, invece, giunge l’eco di un silenzio assordante sull’argomento da parte del leader leghista. Segno che stavolta ai manifestanti Salvini non saprebbe cosa dire. E men che meno, cosa promettere. Povero Matteo, mala tempora currunt. Ma temiamo che per lui la brutta stagione non sia finita se è vero che l’aforisma ciceroniano prosegue con un poco incoraggiante: “Sed peiora parantur”.


di Cristofaro Sola