“Mani pulite” e punti fermi, trent’anni dopo

lunedì 7 marzo 2022


I – Il trentennale di Mani pulite è stato appena celebrato dalle opposte fazioni, ancora armate l’una contro l’altra o quasi. A niente è servito il tempo trascorso, salvo che ad attenuare qualche punta polemica all’eccesso. Quanto al resto, la Storia non ha ancora imposto i suoi diritti, sebbene molti fatti, non tutti, siano chiari. Troppi protagonisti, tra gli accusatori e gli accusati, sono ancora vivi, consapevoli ma indisposti o impossibilitati a dire la loro, definitivamente e fino in fondo. I celebranti continuano a litigare sull’altare della giustizia, anziché glorificarla.

La celebrazione ha risentito anche, purtroppo, degli equivoci ingenerati dai termini “garantismo” e “giustizialismo” che proprio dall’epoca hanno preso ad infestare il dibattito politico. Usati a sproposito anche perché incompresi nel loro significato genuino, che ho cercato di spiegare incidentalmente in vari articoli e da ultimo più a fondo nel saggio sull’Illiberalismo, in corso di pubblicazione. Qui ne riprendo i punti specifici, non senza aver prima sottolineato che i due termini sono addirittura sconosciuti all’Enciclopedia italiana Treccani, mentre sono riportati dal Vocabolario della lingua italiana Treccani (1987) e dal Vocabolario Treccani on line.

Nelle definizioni Treccani, il garantismo e il giustizialismo conservano l’indeterminatezza che rende difficile contrapporli sic et simpliciter e non servono a sfrondarli dall’allusività che mantengono a dispetto delle definizioni. Non è sicuro che chi li pronuncia voglia dire le stesse cose di chi li ascolta, in tutto o in parte.

Usare i due nomi con riguardo a casi concreti, come accade ogni giorno ai combattenti la giustizia piuttosto che per la giustizia, costituisce una truffa semantica, evitabile sostituendoli in modo appropriato con colpevolismo e innocentismo. Proclamarsi “garantisti” dopo una sentenza di condanna pare stravagante, non meno che “giustizialisti” dopo l’assoluzione. O viceversa.

Sembra più esatto dire che:

il garantista è un innocentista in servizio permanente fino alla sentenza di condanna (definitiva);

il giustizialista è un colpevolista in servizio permanente prima della sentenza di condanna (definitiva).

Il concetto opposto del garantismo non è, dunque, il giustizialismo, ma lo Stato di storto ovvero lo Stato distorto cioè quello Stato di diritto che, tale di nome, non lo è di fatto. La contrapposizione, pertanto, è tra garantismo naturale dello Stato liberale e giustizialismo connaturato allo Stato illiberale. L’alternativa garantista o giustizialista non appartiene allo Stato di diritto.

Mentre non esiste il falso giustizialismo, esiste invece il falso garantismo. Garantismo non può voler dire che l’imputato possiede il diritto di cavillo, con cui impedire la conclusione del processo e l’emanazione della sentenza definitiva, nel qual caso sarebbe pur sempre, ed a rovescio, denegata giustizia. La presunzione d’innocenza viene assimilata, dai falsi garantisti, ad uno scudo contro il processo, ad un’assoluzione preventiva, ad un pregiudizio favorevole, ad un improprio favor rei, mentre significa al contrario che l’accusa è sempre aleatoria prima del giudicato. Il garantismo, per nome e sostanza, consiste in equo (uguale) processo secondo giusta (conforme al diritto) legge.

E non è equo il processo in cui l’accusa goda di privilegi negati alla difesa, che sottostà all’accusa in posizione subordinata per rango e ruolo. La più perversa componente dell’ideologia giudiziaria coltivata dall’illiberalismo giustizialista consiste nell’assoluta convinzione che la pretesa punitiva dello Stato, volta ad assicurare l’ordine legale, sia qualitativamente superiore alla presunzione d’innocenza, posta a garanzia della libertà personale. La legalità perseguita e attuata a scapito della colpevolezza inverte e perverte la natura dello Stato di diritto in potere dello Stato ovvero Stato di potere.

Né è giusto il processo che non procede. La durata del processo è parte integrante della perfezione dell’ingranaggio. I risultati giudiziari, i punti fermi del processo, appartengono al tempo non meno che alla procedura. L’illiberalismo giustizialista è odioso non solo perché pretende di accollare all’incolpato l’inefficienza giudiziaria, esclusiva colpa inespiata dello Stato, ma anche perché coltiva l’aberrazione che la durata debba essere una variabile indipendente del processo proprio per il perseguimento della giustizia.

Per converso, quando una pena è stata irrogata, dev’essere scontata, perché la certezza del diritto è parte integrante del garantismo, allo stesso modo che la certezza delle conseguenze legali della condanna è parte integrante della certezza del diritto. E, se le leggi non garantiscono né quella certezza né queste conseguenze, il garantismo appare una clausola di maniera.

Infine, proprio perché, stando alla suddetta definizione, “il garantista è un innocentista in servizio permanente fino alla sentenza di condanna (definitiva)”, l’habeas corpus e la libertà su cauzione, consustanziali allo Stato di diritto, sono imprescindibili per il garantismo e spregiate dal giustizialismo. Nello Stato di diritto, il cui primo fondamento è la libertà personale, l’arresto è di per sé illegale e l’accusa deve provarne la stretta necessità, che è eccezionale. Nello Stato di storto o distorto l’accusato è alla mercè dell’azione penale che, seppure esercitata da un magistrato, presuppone la legalità dell’arresto e, invertendo l’onere della prova, sottopone la privazione della libertà personale dell’accusato a condizioni così labili che nella pratica giudiziaria appaiono discrezionali.

II Tanto premesso e considerato, “Mani pulite” fu garantista o giustizialista? Fu giusta ma giustizialista o ingiusta e giustizialista? A queste domande, ed alle altre più strettamente politiche, dovrà rispondere la Storia. I contemporanei non sanno o non possono ancora rispondere esaustivamente, schierati come sono in trincee contrapposte dal fondo delle quali continuano a combattere una guerra di logoramento, spesso scambiandosele addirittura secondo i loro comodi. Se non tutto di tutto è ancora chiaro, certe conclusioni sono fattuali. Bisogna rilevarle, quanto meno per conferire un senso realistico alla celebrazione.

Il disfacimento della Prima Repubblica avvenne nell’infamia di delitti esecrabili e nel disonore della corruzione pubblica. Divisa a metà, politicamente parlando. Infatti, i partiti che nel dopoguerra l’avevano ricostruita erano stati fucilati alla schiena coram populo per condanne pronunciate in tribunale e in piazza oppure avevano preferito suicidarsi sulle macerie della baratteria perpetrata, sperando in assoluzioni postume. Aldo Moro sbagliò profezia. La Democrazia Cristiana, il fulcro della Repubblica, non solo fu giudicata nelle piazze pubbliche e mediatiche, ma addirittura sciolta dai suoi stessi dirigenti, tra i quali molti esponenti di prima grandezza, compreso un futuro capo dello Stato. Il Partito Comunista italiano, fulcro dell’opposizione, nel complesso fu risparmiato dolosamente o per negligenza, atteso che il finanziamento illegale era pratica corrente, accettata, conosciuta? Nel primo caso saremmo di fronte ad inchieste eversive, perché effettuate con intento politico e discriminatorio; nel secondo caso, ad errore giudiziariamente inescusabile. In entrambi i casi, la magistratura non fa bella figura.

Nondimeno, prescindendo dagli esiti cruciali in svariati campi, il punto centrale del fenomeno politico-giudiziario denominato “Mani pulite” resta in due domande. La prima: esisteva oppure no la corruzione dilagante in alto e in basso, fomentata e protetta dal sistema dei partiti, allora schernito come “partitocrazia”, oggi inopinatamente rivalutato da molti celebranti? La seconda: quella corruzione doveva essere tollerata all’infinito o prima possibile repressa secondo lo Stato di diritto?

III – Quanto alla prima domanda, dilagava la corruzione dei partiti, degli uomini di partito per sé e/o per il partito, degli uomini comuni con l’alibi delle ruberie pubbliche, dei puri e semplici disonesti che si arrangiavano ad ogni livello della società. Pensate, una misera mazzetta scatenò lo tsunami! Troppi celebranti oggi inveiscono contro la magistratura, come se sconoscessero ora per allora l’imponenza e la vastità delle grassazioni perpetrate dai partitanti anche con il pretesto d’insopprimibili necessità delle strutture associative. Un ministro di prima grandezza viveva in un lussuoso appartamento affittato. Gli domandarono i giornalisti come facesse a pagarlo con l’indennità parlamentare, risultando un canone mensile di oltre dieci milioni di lire! Rispose contrariato che l’affitto lo pagava il partito, com’era giusto per un suo altissimo dirigente. Un altro ministro viveva nella suite di un lussuoso albergo. Gli domandarono i giornalisti come pagasse “la stanza” da un milione di lire al giorno, cioè trecentosessantacinque milioni all’anno! Rispose meravigliato che si considerava nullatenente ad alto reddito, ma non tanto alto. Qualche buon Samaritano, dunque, rifondeva la differenza all’albergo. Un orefice dei dintorni, che ne ingioiellava le signore, sta ancora aspettando il pagamento dei regali di Sua Eccellenza. Un altro ministro considerò la cooperazione allo sviluppo meno per i popoli che per sé. Un altro ministro ritirò i fondi riservati prima di consegnare al successore la cassaforte vuota, avendo la delicatezza d’informarlo però. Non c’era casa di alti papaveri, politici e no, dove una pentola o una poltrona o un borsone non nascondessero paccate di banconote. Sono esempi tra i tanti che le cronache spiattellarono dopo che furono scoperchiati, non prima, quando pure venivano sussurrati da tempo nelle redazioni. La corruzione politica era giunta al punto che un ministro tanto arguto quanto scaltro poté alludervi addirittura dal pulpito congressuale, rammaricandosi dei frati ricchi nel convento povero.

Un imprenditore emiliano spiegò in una cena conviviale la differenza che riscontrava nel finanziare il Pci e la Dc: “Quando viene il dirigente comunista – disse – gli do la busta con una certa cifra e la cosa finisce lì. Quando viene il dirigente democristiano gli do la busta e la cosa non finisce lì purtroppo. Dopo qualche giorno viene un altro dirigente democristiano, che, quasi rimproverandomi di aver finanziato l’esponente dell’altra corrente e vantando le virtù della propria, mi chiede di sostenerla concretamente. E dopo viene il dirigente di una terza corrente. E le correnti della Dc sono davvero tante. Capite bene – concluse – che, in fatto di mazzette, il Pci è serio, la Dc no”. Fu anche tale “serietà” che consentì al Pci di pretendersi vergine nel bordello di Tangentopoli e di accreditarsi come vestale della “questione morale”. Da quel punto fino al “partito degli onesti” e a “Mani pulite” suo braccio armato il passo fu breve. La chiamata in correità dei partiti, rimasti muti, risuonò in Parlamento come una sentenza definitiva, non revisionabile, sulla corruzione politica.

IV – Quanto alla seconda domanda, quella corruzione non poteva e non doveva essere tollerata, una volta scoperta. Una certa qual corruzione è ineliminabile nella società. È impossibile, come insegna il grande Bernard de Mandeville nella Favola delle api, “rendere onesto un grande alveare… la semplice virtù non può far vivere le nazioni nello splendore; chi vuol far tornare l’età dell’oro deve tenersi pronto a spartire ghiande tra persone oneste”. Tuttavia, la formula canonica di Mandeville è vizi privati, pubblici benefici, non già vizi pubblici, benefici privati, quale fu ad ogni effetto Tangentopoli secondo l’appropriato neologismo. “Mani pulite” fu giusta nello scopo, doverosa nell’azione, ma illiberale nei mezzi e negli effetti giudiziari, quantomeno perché il pubblico ministero fu innalzato sugli altari come l’arcangelo Michele che debella la corruzione demoniaca dei partiti e della società.

Il 13 luglio 1994 il Consiglio dei ministri all’unanimità, con le firme del presidente Silvio Berlusconi, del ministro dell’Interno, Roberto Maroni, del ministro della Giustizia, Alfredo Biondi, adottò un decreto legge che riduceva il potere dei giudici di applicare la custodia cautelare in carcere. “Decreto Biondi” o, peggio, “decreto salvaladri” fu chiamato. Una settimana dopo, il 21 luglio, la Camera deliberò che non avesse i requisiti costituzionali di necessità ed urgenza. Il “decreto Biondi” decadde per il voto di 418 favorevoli, 33 contrari, 41 astenuti. Al “partito degli onesti”, strabordante in quell’Italia, così i deputati tributarono il trionfo. Dopo tanti lustri e in prospettiva storica quel voto fu, invece, tra le pagine più nere del Parlamento italiano, non meno degli eventi che lo precedettero e determinarono. Accadde qualcosa che, illic et tunc, ebbe caratteri rivoluzionari perché un decreto legge dell’Esecutivo, all’esame del Legislativo, fu contestato dal Giudiziario, con una dichiarazione pubblica in diretta televisiva. Un nucleo di magistrati della procura della Repubblica, “diretti destinatari” della legislazione decretata dal Governo legittimo, alla quale perciò erano già soggetti, vi si “ribellò”, pure con il sostegno del Consiglio superiore della magistratura, accampando la scusa che rendeva difficoltoso l’esercizio dell’azione penale ma in realtà appoggiandosi all’imponente favore popolare. Riflesso e fomentato dai media, il successo dell’alzamiento del Giudiziario fu dovuto a due fattori principali: l’indignazione dei cittadini per il marcio scoperto dai magistrati; la debolezza della politica intimorita e coinvolta. Il dibattito svoltosi in quella seduta resta esemplare nel mostrare l’intreccio tra pretesti e argomenti, giustizia e giustizialismo. Dall’opposizione, un eminente giurista democristiano, già ministro e presidente della Corte costituzionale, giunse ad affermare che i presupposti di necessità ed urgenza non esistevano. A suo giudizio il “decreto Biondi” era “incostituzionale” perché “una condizione migliore per il nostro habeas corpus non è motivo sufficiente per emanare un decreto legge” (sic!). Dalla maggioranza, gli fu ribattuto, con le parole di un politologo altrettanto eminente, che “le libertà personali, e la carcerazione preventiva riguarda quelle libertà, costituiscono un problema così cruciale per la cultura liberaldemocratica da postulare di per sé stesse la necessità e l’urgenza”.

L’alzamiento della magistratura terrorizzò la fragile maggioranza governativa che presto, con arzigogoli da azzeccagarbugli, abbandonò il decreto adducendo un misero pretesto: avrebbe presentato immediatamente un disegno di legge per poter accogliere le proposte dell’opposizione. La verità amarissima era invece che il Governo e il Parlamento erano stati piegati dalla commistione tra la politica della giustizia e il giustizialismo della politica. Non sbagliarono quelli che evocarono Caporetto per qualificare l’abdicazione dell’Esecutivo e del Legislativo dalle loro essenziali prerogative, in favore del Giudiziario. Sbagliarono quelli che equipararono il “decreto Biondi” alla reazione termidoriana contro Robespierre. Termidoro fu un successo contro la barbarie del Terrore. L’affossamento del “decreto Biondi” rappresentò per contro la sconfitta dell’ideale costituzionale della carcerazione preventiva come eccezionale limitazione della libertà personale.

Quanto fosse diventata normale l’esecrabile pratica arbitraria della custodia cautelare fu dimostrato dal contorto e sprezzante pensiero di un procuratore della Repubblica, riportato nel corso del dibattito: “Non è vero che gl’imputati venivano scarcerati quando parlavano, bensì rimanevano dentro fino a quando non parlavano”. Quest’agghiacciante affermazione, concluse il deputato (un magistrato!) che la citò, “nasce dalla bocca di persona alla quale è affidata una delicatissima responsabilità, è grave e disegna un ruolo del pubblico ministero che va divenendo imperiale e difficilmente contrastabile all'interno della realtà giurisdizionale”.

Da allora il potere “imperiale” dei pubblici ministeri ha intaccato la libertà personale del cittadino, riducendolo in minorata difesa, ed ha sottomesso il potere politico, che, spaventato, ha temuto di adeguare la realtà effettuale della giustizia persino alla riforma costituzionale del “giusto processo”, approvata nel 1999, che perciò in alcune disposizioni suona addirittura beffarda: “Ragionevole durata del processo? Contraddittorio tra le parti in condizioni di parità? La persona accusata di un reato sia informata riservatamente?”.

Il “decreto Biondi” liberò a un dipresso 3000 detenuti, dei quali soltanto un 5 per cento all’incirca tornò in custodia cautelare. Ciò provava che la preventiva detenzione del 95 per cento non obbediva a esigenze di giustizia. Non era indispensabile de iure. Fu dunque un abuso contro la libertà personale. Perciò contro la libertà tout court.

(*) Tratto da beemagazine.it


di Pietro Di Muccio de Quattro