Giustizia: un anniversario e un referendum su un’inchiesta fallita

giovedì 17 febbraio 2022


C’è una concomitanza che fa pensare fra l’anniversario della inchiesta “storica” di trenta anni fa e l’indizione di un referendum sulla giustizia. La domanda più che legittima pone interrogativi che, proprio nel ricordo di una inchiesta che doveva imporre l’onestà e la pulizia della politica, si avverte l’esigenza di una chiamata alle urne di un Paese che ha vissuto in prima persona quella vicenda che, ancor prima di risolversi nelle aule di giustizia con sentenza finali, si tradusse in una vera e propria condanna senza scampo, conclusasi con la cancellazione di una Repubblica: la Prima.

La concomitanza vorrebbe sfuggire a qualsiasi ombra partitico-politica, non fosse altro per motivi chiamiamoli così temporali. Ma è proprio l’esigenza di indire oggi un referendum che getta una luce diversa (non nuova, intendiamoci) su un esito giudiziario che solo per ragioni di comodo definiamo con questo termine, ma che in realtà poco o nulla ha e aveva a che fare con l’applicazione di leggi e sentenze. Certo, leggi e norme non mancarono e furono addirittura sprecate ma la spinta, il fomite, la ragione, the reason why che condussero a quella fine – unica nella cronaca e nella storia di qualsiasi democrazia europea – si iscrivono nel libro di una giustizia manipolata, stravolta, piegata a esigenze diverse e funzionali a risultati nei quali è stata privilegiata la politica, se non addirittura partitica.

Dunque, la celebrazione o una cosa del genere come un anniversario non può che risultare una operazione falsa e falsata, se non si getta uno sguardo non offuscato dalla ideologia o dalla superficialità su vicende che il passare del tempo rendono distanti soltanto per chi ne vuole cancellare, o dimenticare, l’effetto dissolutore di ben cinque partiti democratici. Quale fu il limite vistoso di quella inchiesta – che già manteneva al suo interno dei germi distruttivi, sol che si pensi all’abuso del carcere preventivo per ottenere confessioni e chiamate di correo – e che già dall’inizio ne rivelava ai pochissimi ma attenti osservatori (in primis questo giornale e il suo direttore, Arturo Diaconale) le carenze e la pericolosità?

La più vera colpa dell’inchiesta Mani Pulite fu la sua parzialità. E usiamo questo termine solo in apparenza pacato ma che, nella cercata e voluta strutturazione nel suo opposto mancò proprio quel primario e urlato obiettivo che la giustificava, approfittando dell’appoggio di un’opinione pubblica esaltata da mass media alla ricerca dell’audience che saldava in un unico abbraccio mortale la facile popolarità dell’accusa con qualsiasi possibilità di difesa, facendo strame del sacrosanto principio di innocenza, stravolto e irriso da un giustizialismo inesausto.

Fu un’inchiesta politica, non solo perché non premette molto sulle accuse agli imprenditori (salvo ben studiate eccezioni) dispensatori di tangenti in quanto concussi (sia detto una volta per tutte che il salvataggio in toto della Fiat fu scandaloso) ma perché salvò gli eredi del Partito Comunista italiano poi Partito Democratico della Sinistra che quanto a tangenti, soprattutto con la madre Russia, potevano riempire intere biblioteche, per non dire del miliardo portato in una valigetta da Raul Gardini a Botteghe Oscure. Silenzio dell’accusa su tutto questo.

La ventata che accompagnò l’inchiesta del secolo può bene iscriversi nell’album di un giustizialismo da sempre estraneo alla tradizione italiana ma dal quale derivarono frutti politici immediati che, a ben vedere, si sono proiettati fino ai nostri giorni, dentro l’insieme dei partiti uno dei quali, il Movimento Cinque Stelle, si è sempre proclamato “partito dei giudici”, ottenendo purtroppo un grande successo. Che, secondo i sondaggi più recenti, tende irresistibilmente a calare, testimoniando l’antica regola che non bastano i voti, anche tanti, per dimostrarsi all’altezza di responsabilità che il vuoto e l’incapacità annullano, tanto da fare esclamare dai convinti di allora, sia pure a bassa a voce: “Ma perché li ho votati?”.


di Paolo Pillitteri