Scusate se vi parliamo di Cinque stelle

sabato 12 febbraio 2022


Con tutte le grane che attendono gli italiani nei prossimi mesi proprio non vorremmo tediarvi con lo psicodramma Cinque stelle. Eppur si deve. Non certo perché stimolati da una pruderie per gli stracci colmi di sterco che volano in casa altrui. Ciò che preoccupa non è la sorte personale dei capi e capetti della fu “banda degli onesti” ma il disorientamento di un bacino elettorale gigantesco che nel 2018 si affidò a loro. Con una scadenza elettorale non lontana – le Politiche del 2023 – domandarsi dove andrà quel popolo di delusi non è gossip ma attenzione per la tenuta democratica del Paese. La parabola della meteora grillina sta per concludersi. E nel peggiore dei modi. Un movimento privo di radicamento culturale e ideologico, in questa legislatura, è divenuto preda della sindrome di Zelig: ha modificato di continuo la sua identità, adeguandola ai gruppi politici e agli schieramenti con cui di volta in volta è entrato in relazione, come una sorta di camaleonte.

Il Movimento è stato sovranista con i sovranisti alla Matteo Salvini, progressista con i progressisti del Partito democratico; anti-sistema con la democrazia diretta dei meetup, pro-establishment con gli uomini simbolo dell’establishment alla Mario Draghi e Sergio Mattarella; antieuropeista con i Gilets jaunes, filoeuropeista con Ursula von der Leyen. Ed è stato tante altre cose e insieme il loro contrario. Nella scienza medica la sindrome di Zelig è una patologia che comporta un grave disturbo della personalità; in politica, è una novità che stenta a essere classificata. Neppure un’interpretazione forzata del concetto di trasformismo è sufficiente a spiegare il fenomeno grillino.

A maggior ragione adesso che la tragedia va trasformandosi in farsa grazie alla decisione del Tribunale civile di Napoli che, accogliendo un ricorso presentato da alcuni iscritti pentastellati, ha sospeso le deliberazioni del Movimento 5 stelle relative alle ultime modifiche statutarie nonché all’elezione alla presidenza di Giuseppe Conte e ha ripristinato la validità dello statuto del 2017. Per inciso, i fautori del primato della politica hanno stigmatizzato l’interferenza della magistratura nelle vicende interne a una formazione partitica. Benché il principio sia sacrosanto – non spettano al giudice le scelte di un partito – nel caso specifico il tribunale non c’entra. La verità è che generalmente le associazioni private, tra cui si annoverano i cosiddetti corpi intermedi, si cautelano dall’intromissione dello Stato nelle proprie questioni interne inserendo una clausola arbitrale nello Statuto che inibisce agli associati il ricorso al giudice ordinario per dirimere controversie sorte tra i membri dell’associazione o tra questi e gli organismi dirigenti e amministrativi del sodalizio. Clausola che è contenuta nell’ultima versione statutaria del Cinque stelle redatta da Giuseppe Conte, ma non nella precedente, in vigore al momento delle votazioni che hanno modificato gli assetti nel Movimento.

Ragione per la quale, lasciata la porta aperta all’intervento del giudice ordinario, alcuni associati scontenti del cambio di rotta impresso da Conte, ne hanno approfittato. Chiusa parantesi, resta la questione centrale: cosa faranno domani i tanti delusi dall’utopia grillina? Per capire di cosa parliamo, diamo i numeri. Nella tornata elettorale del 4 marzo 2018, per il rinnovo della Camera dei deputati il Movimento cinque stelle ha ottenuto in Italia (dal conteggio sono esclusi i voti degli italiani all’estero e della Valle d’Aosta) 10.732.066 di voti, pari al 32,68 per cento. Oggi i sondaggi collocano il Movimento intorno al 14 per cento dei consensi. Dato percentuale che riteniamo assolutamente sovrastimato. Una previsione realistica, che tiene conto del risultato ottenuto dal Movimento alle Amministrative dell’autunno del 2021, lo colloca molto al di sotto delle due cifre, con un potenziale elettorale intorno ai 2milioni di voti.

La domanda è: dove si dirigeranno gli 8milioni di italiani che nel 2023 non rinnoveranno la fiducia ai grillini? Al momento, non si rilevano significativi spostamenti dei flussi a sinistra né a destra, con l’eccezione di Fratelli d’Italia la cui crescita s’inquadra all’interno di un processo di drenaggio del consenso in uscita dalla Lega. Il rischio più grande è che tale massa di elettori ripieghi sull’astensionismo. E questo sarebbe un dramma. Si fa presto a dire che si governa con un solo voto in più. Per la tenuta democratica è indispensabile che i voti ci siano nel maggior numero possibile, a prescindere dal fatto che vadano a destra o a sinistra. Invece, qualche segnale estremamente negativo c’è già stato. Lo scorso 16 gennaio, alle elezioni suppletive per assegnare il seggio alla Camera dei deputati nel Collegio uninominale Roma 1, vacante dopo l’elezione di Roberto Gualtieri a sindaco della Capitale, ha votato l’11 per cento degli aventi diritto.

Si obietterà: un appuntamento elettorale disertato dai romani non fa testo. Sarà, ma un segno è un segno, e quello dato dagli abitanti del Celio, dell’Esquilino, del Testaccio, di Prati, del Trionfale e dai trasteverini, è stato pessimo. Il pericolo che si corre con una diaspora dalle urne di dimensioni bibliche non è la copertura numerica del Parlamento: quella è garantita, anche con una partecipazione ridotta al lumicino. Il rischio è che, in una condizione tutt’altro che stabile della società italiana, l’opposizione al futuro Governo possa uscire dal perimetro istituzionale e incanalarsi nell’alveo della protesta di piazza. Come stava per accadere nel 2012, al tempo del Governo Monti. In quella circostanza, la comparsa dei Cinque stelle, con il loro portato utopico, fu provvidenziale perché il malessere sociale non imboccasse strade sbagliate e violente. Di ciò va dato atto all’eterogenesi dei fini di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio che, predicando la rivoluzione impossibile, avevano salvato l’Italia dalla ribellione concreta. Oggi, però, non compare alle viste alcun tribuno che possa captare gli umori ribollenti della piazza.

Il popolo degli scontenti, le cui fila sono state ingrossate dalla pandemia, oggi dalla crisi energetica, domani lo saranno dalle conseguenze catastrofiche dell’inflazione arginata con la contrazione del credito e della liquidità, si accontenterebbe di disertare le urne? Non cercherebbe altre modalità per esprimere la propria sfiducia verso la classe dirigente? Difficile dirlo, ma impossibile escludere a priori gli scenari più cupi. C’è modo di rimediare? In particolare, il centrodestra, posto che esista ancora, cosa può fare per evitare il peggio? Mostri coraggio e lucidità. Lo diciamo a quelli in Forza Italia e all’ala governista della Lega: non si adagino sugli allori di cui è cinta la fama di Mario Draghi. Non basta, perché gli italiani messi alle strette dalla povertà conclamata o incipiente non saprebbero che farsene del cursus honorum del premier.

Il centrodestra che verrà – se verrà – faccia un gesto rivoluzionario: vada a rileggersi il programma con cui il Cinque stelle ha sbancato alle Politiche del 2018. Rifletta sulle promesse date agli elettori e, fatta la tara rispetto agli infantilismi ideologici di cui quel programma era infarcito, ne colga lo spirito grazie al quale i grillini erano riusciti a entrare in sintonia con l’anima profonda del Paese. Stesso consiglio lo giriamo a Giorgia Meloni la cui coerenza è encomiabile. Tuttavia, anche dalle parti di Fratelli d’Italia non basta guardarsi allo specchio e dirsi: siamo i più bravi. L’autoreferenzialità è uno dei vizi capitali della politica, la destra non ci caschi. C’è bisogno di ascoltare la gente. E chi più saprà cogliere l’eco di fondo che sale dalle viscere della società, maggiori chance avrà di vincere la partita elettorale. E di governare.


di Cristofaro Sola