Non c’è da stare allegri

martedì 8 febbraio 2022


Sui media si discetta, con gran spreco di parole, dei rimescolamenti delle alleanze partitiche dopo la rielezione di Sergio Mattarella alla presidenza della Repubblica. Come se conoscere cosa-farà-chi possa essere la soluzione, in positivo, della crisi italiana. Tempo perso. La sensazione è che le scelte di oggi tra un anno non avranno alcun senso. Potremmo trovarci di fronte a uno scenario socio-economico terremotato, nel quale gli elettori faranno fatica a conferire il mandato a essere rappresentati all’una o all’altra forza politica. Verosimilmente, gli italiani si asterranno in massa, spinti da un inarrestabile desiderio di sfiduciare in toto la classe dirigente espressa dai partiti. Prossimi alla fine la pandemia, cosa può innescare il panico?

È bizzarro che il vituperato Paolo Savona, che osò mettere in discussione il “Verbo” comunitario dell’europeismo fideistico, avesse visto giusto. L’ipotesi che sul sistema economico e finanziario dell’Unione potesse abbattersi, inaspettato, il temuto “cigno nero”, non era la maledizione di un fanatico menagramo ma il crudo disvelamento della fallacia di un impianto politico sovranazionale costruito su fragili fondamenta: l’Unione europea, il gigante dai piedi d’argilla. Sembrava impossibile, eppure siamo alla tempesta perfetta che può distruggere secoli di sforzi e di lotte per edificare società industriali evolute e capaci di generare benessere diffuso. Il “cigno nero” del nostro tempo è l’impazzimento del mercato delle materie prime energetiche che incrocia l’onda montante dell’inflazione. I costi della bolletta di gas e di energia elettrica schizzati alle stelle, se da un lato incidono sul potere d’acquisto dei salari e, a cascata, sull’attitudine al consumo delle famiglie, dal lato delle imprese suonano la campana a morto. Un apparato manufatturiero come il nostro, altamente energivoro, rischia di saltare definitivamente.

L’Ufficio studi della Cgia di Mestre ha stimato che, nel 2022, per le famiglie e le imprese l’aumento del prezzo delle tariffe energetiche sarà pari a 89,7 miliardi di euro (dei quali 58,9 miliardi in conto alle imprese). Sono numeri insostenibili. E non è vero che si sia al cospetto di una fase acuta ma breve della congiuntura economica. Le previsioni dicono che, al netto di un lieve ribasso fisiologico nel periodo estivo, i costi resteranno alti per un tempo prolungato. E non si dica che per questo disastro l’Unione europea non abbia colpe. Le ha, eccome. Le ha per ciò che fa di sbagliato. E le ha per ciò che omette di fare. Di sbagliato c’è il metodo e la tempistica con cui Bruxelles ha pensato d’imporre la transizione ecologica al sistema produttivo a energia fossile. Una follia a beneficio di pochi e a danno di molti. Il sacro furore per la difesa dell’ambiente ha provocato la fuga dei grandi gruppi privati del settore degli idrocarburi. Le major petrolifere stanno abbandonando gli investimenti upstream nonostante la domanda globale di gas lo scorso anno avesse raggiunto i quattromila miliardi di metri cubi con una previsione d’incremento medio del 6 per cento fino al 2024 (fonte: Agenzia internazionale dell’energia).

Gli investitori, in particolare i fondi che sono presenti negli azionariati delle multinazionali degli idrocarburi, continuano a piantare paletti all’utilizzo di fonti energetiche non rinnovabili. Ciò determina la riduzione dell’offerta di prodotto disponibile a fronte della crescita della domanda. È così che i prezzi schizzano in alto. Ma gli aumenti hanno cause anche geopolitiche. La turbolenza sul fronte russo-ucraino non aiuta. Come non aiuta il comportamento insolitamente provocatorio di Washington, che si comporta come se volesse a tutti i costi la guerra con la Russia ai confini orientali d’Europa. Visto che parliamo di casa nostra, l’Unione dovrebbe dire la sua con una voce sola. Per la soluzione della crisi in atto, riprendere con forza e convinzione la via diplomatica con il gigante russo, che garantisce ai Paesi dell’Unione il 40 per cento del loro fabbisogno energetico, sarebbe la cosa giusta da fare. Il problema è che l’Europa unita non esiste. Ci sono in circolazione dei modesti leader nazionali, a cominciare dal francese Emmanuel Macron, che provano a giocare per proprio conto al tavolo delle grandi potenze.

E l’Italia? Una telefonata di Mario Draghi a Vladimir Putin per assicurarsi che l’orso dell’Est non ci rifili, nella confusione, una zampata che potrebbe fare molto male, è stata la nostra grande mossa di politica estera. Quanto avrebbe fatto comodo avere oggi al Quirinale Silvio Berlusconi, il solo europeo, insieme all’ex lady di ferro tedesca Angela Merkel, a vantare un rapporto alla pari con il capo del Cremlino. Atteso che da Bruxelles, dove la Commissione europea ha rinunciato in partenza a implementare una policy comune di stoccaggio delle riserve di gas, non giungerà alcun significativo aiuto per tirarci fuori dai guai, domandiamoci se il Governo Draghi sarà in grado di mettere in salvo le imprese e le famiglie italiane. La strada intrapresa da Palazzo Chigi per fronteggiare il rincaro dell’energia è di corto respiro. Gli scostamenti di bilancio finora approvati non risolvono il problema alla lunga distanza e, allo stesso tempo, ampliano il già colossale debito pubblico. Occorrerebbe, invece, che il Governo si dotasse di una strategia articolata su tre livelli temporali: di breve, medio e lungo termine. Ma non è un’iniziativa di facile realizzazione.

Di base, le forze politiche di maggioranza dovrebbero avere una visione condivisa del futuro di questo Paese. In particolare, sul medio-lungo termine dovrebbero concentrare gli sforzi per riavviare il processo di autosufficienza energetica con la diversificazione delle fonti di approvvigionamento. Ciò significa: sviluppare la strategia di estrazione del gas dal sottosuolo nazionale e dal mare; rimettere mano al piano di utilizzo del nucleare di ultima generazione cosiddetto “pulito”; accrescere il ricorso alle centrali a carbone non ancora dismesse; irrobustire il ciclo di smaltimento termico dei rifiuti solidi per la creazione di energia. Perché il vento e il sole al momento non sono minimamente in grado di soddisfare la domanda energetica interna. Per l’immediato, bisognerebbe tagliare integralmente il costo degli oneri di sistema e intervenire a calmierare il prezzo dell’energia con il ricorso al sistema tariffario determinato, in via autoritativa, dal Governo. Siamo in costanza di stato d’emergenza? E allora il decisore politico agisca. Si rispolveri il vecchio Comitato interministeriale prezzi (Cip) per contenere gli aumenti del costo dell’energia a livelli sostenibili rispetto a quelli dei Paesi europei concorrenti (Germania, Francia, Spagna). Non ha senso pensare di sottrarre gli extra-profitti alle aziende distributrici dell’energia elettrica e del gas quando lo Stato ha il potere, in via straordinaria, di fissare a monte il prezzo al consumo.

Ma come fare tutto questo se la politica è ostaggio dell’infantilismo ideologico dei Cinque Stelle e della sinistra camaleontica che all’occasione si tinge di verde? I cittadini dovrebbero ricordarsene quando si recheranno alle urne per rinnovare il Parlamento. Fino a qualche giorno fa abbiamo celebrato l’onniscienza di Mario Draghi. Adesso cominciamo a dubitare della sua infallibilità. Se il premier non dovesse riuscire a intervenire con efficacia sulla crisi energetica, c’è la possibilità che nel 2023 al posto delle urne vi saranno le macerie. Non sappiamo quanto lo stesso Draghi ne sia consapevole. E non è che abbiamo davanti molto tempo per scoprirlo.


di Cristofaro Sola