lunedì 31 gennaio 2022
La crisi di sistema è ormai un fatto politico tanto incontestabile, quanto drammatico. È incontestabile perché la rielezione alla Presidenza della Repubblica di Sergio Mattarella certifica, con timbro e ceralacca, l’incapacità della stragrande maggioranza della classe politica di gestire passaggi istituzionali fondamentali per la vita democratica. Ma è anche una crisi drammatica perché il film al quale abbiamo assistito denuncia, per un verso, lo sgretolamento delle antiche coalizioni e dei singoli partiti, e per un altro l’assenza di alternative politiche in grado di corrispondere ai bisogni di progettualità, competenza e rinnovamento che salgono con forza da una parte del corpo elettorale.
Vorrei provare a dire le cose senza infingimenti, per come stanno o almeno per come le vedo. La crisi di sistema in corso non si può affrontare con l’ormai stucchevole lamentazione della morte delle ideologie novecentesche. Se non si può vivere di nostalgia, neppure si può sperare che quelle ideologie risorgano così da porle a base della rifondazione della politica. E il motivo è tanto semplice quanto tranciante: non rinasceranno.
La crisi, oggi, si nutre di altri alimenti e finché saranno questi a imbandire la tavola non sarà possibile recuperare il senso più profondo della politica, men che meno rifondare in modo nuovo i partiti e riallacciare un rapporto fiduciario tra questi e il popolo.
Mi limito a indicarne due. Il sistema di elezione della classe politica è il primo. Da decenni non vi è più nessun vaglio reale degli eletti da parte degli elettori. Nessuna reale competizione sui territori, nessuna effettiva prova di capacità e di competenza, niente di niente. I parlamentari sono nominati dai capi partito o, come si diceva una volta, dai capi bastone, inseriti in liste elettorali blindate e poi abbinati a simboli di partito o di coalizione. In alternativa sono scelti opacamente in “rete” tra persone sconosciute, secondo la doppia logica “uno vale uno” e “uno vale un altro”.
Alle elezioni, poi, i voti di preferenza sui singoli candidati, anche quando possono essere espressi, sono un orpello sostanzialmente inutile.
Nel rapporto tra eletti ed elettori questo è il tarlo più evidente, ma ve ne sono altri, che stanno prima di questo e che sono altrettanto distruttivi della linfa democratica: la chiusura a doppia mandata dei partiti tradizionali ad ammettere nelle loro fila figure nuove, specie se competenti e dal pensiero autonomo; e la sostanziale impossibilità, anche per i più volenterosi ma privi di ingenti finanziamenti privati, di dare vita a nuove aggregazioni politiche che abbiano l’ambizione di concorrere sul piano nazionale.
Di qui una conseguenza ulteriore: il prosciugamento del bacino della dirigenza pubblica di alta qualità, chiamata a ricoprire incarichi bensì tecnici, ma pur sempre disposti dalla politica. L’inesorabile riduzione, cioè, dei grand commis de l’État.
La crisi, poi, si ciba di un altro alimento. È un fungo a tal punto velenoso da essere mortale per tutto ciò che contamina, dentro e fuori dalla politica. È il populismo, un misto di irresponsabilità, impreparazione, semplificazione, propaganda, suggestione mediatica, illusioni, false notizie e false soluzioni, di anti-scienza, credulità, giustizialismo.
Il populismo non è di destra o di sinistra. È un moto culturale invasivo e pervasivo, orizzontale a tutti gli schieramenti e a tutti i settori dell’agire pubblico e privato.
Del suo veleno è ormai imbevuto una parte assai consistente del sistema politico, così come del sistema istituzionale, compreso quello del “quarto potere”, ossia di una larga fetta dell’apparato massmediatico. E sotto gli effetti delle sue neurotossine sta ormai cedendo perfino il pactum societatis.
Uscire da questa situazione sarà difficilissimo, non ci illudiamo. Chi ha in mano le redini le terrà strettissime, costretto tra gli spasmi dell’autoconservazione e la pochezza della vista.
E allora, auguri signor Presidente, che sono anche gli auguri per tutti noi. Auguri!
di Alessandro Giovannini